Gli lanciò uno sguardo di sfida per vedere se avrebbe difeso la sua famiglia di fronte a lei. Oscar tacque, naturalmente. Si recò verso una vasta grata, posta sotto il caminetto, e scelse una terza chiave. Jude la sentì entrare nella serratura, udì il movimento dei denti e dei contrappesi e, alla fine, il cigolio della porta che si apriva. Oscar si girò verso Judith e le chiese: "Allora vieni? Sta' attenta. I gradini sono alti."

La scala non era soltanto ripida, ma anche molto lunga. L'unica luce che proveniva dalla stanza da cui erano partiti svanì dopo una decina di scalini. Jude ne scese un paio alla cieca prima che Oscar trovasse un secondo interruttore. Il labirinto si illuminò. Un senso di trionfo la pervase. Aveva desiderato ardentemente di trovare un modo per accedere a quel nuovo mondo da quando il sogno dell'occhio blu l'aveva condotta nella cella di Celestine. Quel desiderio era più vivo che mai adesso. Ora, finalmente, stava per entrare nella visione che aveva avuto, attraverso quella miniera di libri - tanti da arrivare al soffitto - fino al luogo in cui si trovava la Dea.

"Questa è la più vasta raccolta di testi sacri dal tempo della biblioteca di Alessandria," le spiegò Oscar con un tono da guida di museo, come per difendersi, pensò Jude, dalla tensione che stava provando. "Ci sono libri qui di cui nemmeno il Vaticano è a conoscenza." Abbassò la voce, come se temesse di disturbare qualche topo di biblioteca. "La notte in cui è morto, papà mi ha confidato di aver trovato qui un libro scritto dal Quarto Re."

"Che cosa?"

"Secondo il Vangelo, ci sono stati tre Re Magi a Betlemme, ricordi? Ma il Vangelo mentiva. Ce ne sono stati quattro. E tutti cercavano il Riconciliatore."

"Cristo era un Riconciliatore?"

"Così ha detto papà."

"E tu gli credi?"

"Papà non aveva motivo di mentire."

"Ma il libro, Oscar; il libro poteva mentire."

"Come anche la Bibbia. Papà mi ha detto che quel Re Mago ha scritto questa storia perché sapeva che sarebbe stato escluso dal Vangelo. È stato proprio lui a dare il nome all'Imagica. Ha scritto quella parola nel suo libro. Era la prima volta nella storia che il nome compariva in un libro. Papà mi disse che aveva pianto."

Jude considerò il labirinto che si stendeva dai piedi delle scale con nuovo rispetto.

"Hai più cercato di ritrovare il libro?"

"Non ne avevo bisogno. Quando papà morì, sono andato a caccia della verità. Sono andato avanti e indietro come se Cristo fosse riuscito nel suo intento e il Quinto fosse riconciliato. Ed eccole là, le diverse magioni dell'Imperscrutabile."

E c'era anche l'attore più enigmatico di quel dramma tra i Domini: Hapexamendios. Se Cristo era stato un Riconciliatore, era figlio dell'Imperscrutabile? Era la forza che si nascondeva tra le nebbie del Primo Dominio, il Dio degli Dei? E, se era così, perché aveva distrutto tutte le Dee dell'Imagica, come diceva la leggenda? Una domanda tirava l'altra, e tutte derivavano da alcune affermazioni fatte da un uomo che si era genuflesso al momento della Natività. Non c'era da meravigliarsi che Roxborough avesse sepolto tutti quei libri.

"Sai dove si trova questa donna del mistero?" le chiese Oscar.

"Non con precisione."

"E allora ne avremo per un po'."

"Ricordo che c'era una coppia che stava facendo l'amore laggiù, vicino alla cella. Uno dei due era Bloxham."

"Sporco bastardo. Allora ci saranno delle tracce sul pavimento, giusto? Suggerisco di dividerci, altrimenti passeremo qui tutta l'estate."

Si separarono sulle scale e partirono in direzioni diverse. Jude scoprì ben presto che i suoni nelle gallerie si trasmettevano in modo piuttosto strano. Certe volte riusciva a sentire perfettamente i passi di Godolphin, tanto da crederlo dietro di lei. Poi girava un angolo (o forse era lui a girarlo) e il rumore dei passi non solo diminuiva, ma spariva letteralmente, lasciandola in compagnia di quello delle suole delle sue scarpe che battevano sulla pietra fredda. Si trovavano talmente in profondità che nessun rumore della strada riusciva a penetrare fin lì; né si udivano suoni provenire dalla terra che li circondava, non un ronzio di cavi, non uno scorrere d'acqua.

Più volte Judith fu tentata di prendere uno dei tomi dai tanti scaffali, pensando, forse, che il caso le avrebbe fatto mettere le mani proprio sul diario del Quarto Re. Ma resistette, ben sapendo che, anche ammettendo di avere il tempo di soffermarvisi, i volumi erano scritti nelle grandi lingue della teologia e della filosofia: latino, greco, ebraico e sanscrito; tutte incomprensibili per lei. Come sempre in quel viaggio, avrebbe dovuto avere la fortuna di trovare con l'istinto un aggancio alla verità e poi elaborarlo da sola. Non aveva nulla che potesse illuminarle la strada a parte l'occhio blu che, al momento, era nelle mani di Gentle. Glielo avrebbe chiesto non appena fosse tornata a casa; gli avrebbe dato qualcos'altro come talismano: anche i peli del pube, se era quello che voleva. Ma non il suo uovo; non il suo uovo freddo e blu.

Forse furono questi pensieri a condurla nel luogo in cui aveva visto i due fare l'amore; o forse fu quello stesso caso in cui aveva sperato per trovare il libro del Re. Se era così, si trattava di una buona guida. Lì c'era la parete dove Bloxham e la sua amante si erano accoppiati; la riconobbe senza ombra di dubbio. Lì c'erano gli scaffali a cui la donna si era aggrappata mentre quel ridicolo damerino si dava un gran daffare per soddisfarla. Tra i libri di quegli scaffali, la calce era lievemente tinta di blu. Non chiamò Oscar, ma si avvicinò agli scaffali e buttò a terra un bel po' di libri, poi toccò le macchie. Il muro era molto freddo, ma la malta si sfaldò al suo tocco, come se il sudore fosse sufficiente per scioglierne gli elementi. Turbata da quello che era riuscita a provocare e compiaciuta, si ritrasse dal muro, mentre osservava la straordinaria rapidità con cui il messaggio si spargeva. La malta cominciò a fluire tra i mattoni come sabbia finissima, prima a rivoli e poi, dopo pochi secondi, come un fiume impetuoso.

"Sono qui," urlò alla prigioniera dietro la parete. "Dio solo lo sa quanto ci ho messo. Ma adesso sono qui."

 

Oscar non udì neppure l'eco delle paróle di Judith. La sua attenzione era stata attirata per due o tre minuti da un suono che veniva da sopra ed egli era salito per le scale alla ricerca della sua fonte. Aveva già svilito la sua virilità a sufficienza negli ultimi giorni, nascondendosi come una vedova impaurita, e il pensiero di riguadagnarsi un po' di rispetto agli occhi di Jude, sfidando l'eventuale nemico, gli diede la forza e il coraggio di agire. Si era armato con un bastone di legno che aveva trovato in fondo alle scale e ora quasi sperava che le sue orecchie non gli avessero giocato qualche brutto scherzo e che davvero ci fosse qualcosa di concreto lassù. Era nauseato dal suo continuo timore dei rumori e delle immagini appena intraviste tra le pietre turbinose della Coppa Boston. Se c'era qualcosa da vedere, voleva vederla e poi abbandonarsi al destino: morire di paura o guarire definitivamente.

In cima alle scale ebbe un momento di esitazione. La luce che trapelava dalla porta della stanza di Roxborough si muoveva appena. Oscar strinse tra le mani il bastone e varcò la soglia. Tutta la stanza ballava insieme alle luci, il tavolo e le sedie tremavano. Oscar studiò guardingo il locale e ogni suo angolo. Non scorgendo nemmeno un'ombra, si spostò verso la porta che conduceva nell'atrio quanto più silenziosamente possibile. Quando vi giunse, le luci smisero di ballare. Uscì allora all'aria aperta e fu colpito da un profumo intenso, dolce quanto improvviso e amaro fu il dolore che sentì sul fianco. Cercò di girarsi ma chi lo attaccava sferzò un secondo colpo. Oscar mollò la presa del bastone e lanciò un urlo...

 

"Oscar?"

Non voleva lasciare la parete della cella di Celestine mentre era in atto quell'incredibile spettacolo di dissoluzione - i mattoni cadevano uno sull'altro quanto più la malta si scioglieva e gli scaffali cigolavano, sul punto di cedere - ma l'urlo di Oscar chiedeva tutta la sua attenzione. Ritornò velocemente sui propri passi, attraversando il labirinto mentre il rumore delle pareti che franavano echeggiava in tutti i passaggi, confondendola. Riuscì comunque a ritrovare le scale, dopo un po', e gridò il nome di Oscar. Non ricevette alcuna risposta, sicché decise di risalire nella stanza delle riunioni. Tutto era silenzio anche lì, e deserto come l'atrio; l'unico segno del passaggio di Oscar era un pezzo di legno vicino alla porta. Ma perché diavolo era salito fin qui? Uscì per vedere se fosse tornato alla macchina per qualche motivo, ma fuori non c'era segno di lui. Jude valutò allora un'ultima possibilità: i piani superiori della Torre.

Irritata, ma anche leggermente in ansia, guardò la porta aperta che conduceva alle cantine, divisa tra l'istinto di tornare a salutare Celestine e seguire Oscar su per le scale della Torre. Un uomo della sua stazza avrebbe saputo come difendersi, pensava tra sé, ma non riusciva a non sentirsi in un certo qual modo responsabile, dato che era stata lei a costringerlo a seguirla.

Una delle porte sembrava essere quella di un ascensore, ma non appena Judith vi si avvicinò, udì il rumore del motore che lo azionava e allora, invece di aspettare, cominciò a salire per le scale. Nonostante fosse buio, non rallentò il passo, anzi, fece i gradini tre, quattro alla volta finché non giunse alla porta dell'ultimo piano. Afferrando la maniglia udì una voce provenire dalla suite. Le parole erano indecifrabili, ma la voce sembrava impostata, quasi artefatta. Forse che qualcuno della Tabula Rasa fosse sopravvissuto? Magari Bloxham, il Casanova delle cantine?

Aprì la porta. C'era più luce, anche se non molta. Tutte le stanze lungo il corridoio erano al buio e con le tende tirate. Ma la voce la guidava attraverso il buio verso un paio di porte, una delle quali era socchiusa. Dall'altra parte ardeva una lampada. Si avvicinò con cautela, il tappeto attutiva i suoi passi. Anche quando chi parlava interruppe il monologo per qualche secondo, Jude non smise di procedere e giunse alla suite senza aver fatto il minimo rumore. Non c'era motivo di indugiare, pensò quando si trovò sulla soglia. Senza dire parola, aprì la porta.

Nella stanza c'era un tavolo su cui stava steso Oscar. In due pozzanghere, una di luce, l'altra di sangue. Judith non gridò, né si sentì male, anche se Oscar era mezzo squarciato come un paziente sul tavolo della sala operatoria. I pensieri di Jude volarono da quell'orrore all'uomo e alle sue sofferenze. Era vivo: riusciva a vedere il cuore che ancora batteva come un pesce moribondo in una pozza rossa.

Il bisturi del chirurgo era stato posato sul tavolo accanto a lui, e il suo proprietario, nascosto nell'ombra, disse: "Eccoti. Entra. Cosa c'è? Non vuoi? Entra." Pose le mani, pulite, sul tavolo. "Sono solo io, tesoro."

"Dowd..."

"Ah! Venir ricordati... sembra una cosa da nulla, vero? Ma non lo è. Davvero, non lo è."

Nei suoi modi c'era la teatralità di sempre ma il tono mellifluo sembrava svanito dalla sua voce. Dowd sembrava una parodia di se stesso, il viso una maschera tagliata con l'accetta.

"Unisciti a noi, tesoro," mormorò. "Siamo insieme, dopo tutto."

Sebbene fosse sorpresa di vederlo di nuovo (ma Oscar non l'aveva forse avvisata che quella specie era difficile da annientare?), non si sentiva intimidita. Aveva assistito ai suoi trucchi, ai suoi inganni, alle sue messe in scena, e l'aveva anche osservato mentre, appeso nel vuoto di un abisso, implorava che gli fosse risparmiata la vita. Era ridicolo.

"Se fossi in te, non toccherei Godolphin^" le disse.

Judith ignorò il suo consiglio e si avvicinò al tavolo.

"La sua vita è appesa a un filo," continuò Dowd. "Se si muove, ti posso assicurare che tutte le sue interiora cadranno fuori. Ti consiglio di lasciarlo lì. Goditi questo momento."

"Godere?" chiese sbalordita Jude, sentendo affiorare in sé il disgusto e sapendo che era proprio quello che il bastardo voleva ottenere.

"Calmati, dolcezza," esclamò Dowd, come se il tono alto della voce di Jude lo disturbasse. "Sveglierai il bambino." Soffocò una risata. "Lui è un bambino, davvero, rispetto a noi. Una vita così breve..."

"Perché lo fai?" domandò Judith.

"Da dove posso iniziare? Dalle ragioni piacevoli? No. Da quella principale. L'ho fatto per essere libero." Si piegò verso di lei, il viso come un lavoro di traforo in chiaroscuro sotto la lampada. "Quando esalerà l'ultimo respiro, amore, sarà la fine dei Godolphin. Quando lui se ne sarà andato, noi non saremo più schiavi di nessuno."

"Eri libero a Yzordderrex."

"No. Forse avevo un guinzaglio particolarmente lungo, ma non ero mai pienamente libero. Provavo i suoi desideri, i suoi sconforti. Una piccola parte di me sapeva che mi sarei sentito felice con lui, preparandogli il tè e asciugandogli il sudore tra le dita. Nel cuore, ero ancora uno schiavo!" Lanciò uno sguardo a quel corpo inerte. "Sembra quasi un miracolo. Guarda come cerca di tirarla per le lunghe."

Fece per afferrare il coltello.

"Lascialo stare!" urlò Jude, e Dowd ritirò la mano con una rapidità sorprendente.

Judith si piegò su Oscar con il timore di toccarlo e compromettere il suo organismo già provato, dandogli il colpo di grazia. Il volto dell'uomo si contraeva in smorfie e le labbra violacee erano pervase da tremiti.

"Oscar?" mormorò Judith. "Riesci a sentirmi?"

"Oh, ma guardati, tesorino," disse in tono sprezzante Dowd. "Pendi dalle sue labbra. Ricordati come ti ha usata. Come ti ha oppressa."

Judith si avvicinò ancora di più a Oscar e pronunciò di nuovo il suo nome.

"Non ci ha mai amati," continuò Dowd, "Noi eravamo suoi prodotti e i suoi giochini. Parte della sua..."

Oscar aprì gli occhi.

"... eredità," affermò Dowd, ma l'ultima parola era appena udibile. Quando Oscar aprì gli occhi, Dowd fece istintivamente un passo indietro, celandosi nell'ombra.

Le labbra di Oscar formarono le sillabe del nome di Judith, ma non furono accompagnate da nessun suono.

"Oh, Dio," mormorò Jude. "Riesci a sentirmi? Voglio che tu sappia che tutto questo non è stato inutile. L'ho trovata. Capisci? L'ho trovata."

Oscar annuì lievemente con il capo. Poi, con delicatezza dolorosa, si bagnò le labbra e respirò a fondo per dire: "Non era vero..."

Judith udì le parole ma non ne comprese il significato. "Che cosa non era vero?" chiese.

Oscar si umettò di nuovo le labbra, il viso contratto nello sforzo di parlare. Questa volta pronunciò una sola parola. "Eredità..." disse.

"Non era un'eredità?" chiese Judith. "Lo so."

Oscar fece un sorriso lievissimo, tenendo lo sguardo fisso sul volto di Jude, inquadrando solo dal sopracciglio alla guancia, poi dalla guancia alle labbra, poi ancora gli occhi impassibili. "Io... ti... amavo," affermò.

"So anche quello," gli sussurrò Judith.

Lo sguardo di Oscar si offuscò. Il cuore smise di battere nella pozza di sangue e contemporaneamente il viso si rilassò. Se ne era andato. L'ultimo dei Godolphin, morto sul tavolo della Tabula Rasa.

Jude si alzò fissando il cadavere, sebbene le facesse male. Aveva voluto giocare con le tenebre ed ecco, quella era stata la punizione. Non vi era nulla di poetico o di nobile in quella scena, soltanto desolazione.

"Ecco fatto," riprese Dowd. "Strano. Non mi sento per niente diverso. Forse ci vorrà del tempo. Suppongo che si debba imparare ad apprezzare la libertà, così come fanno tutti." In questa affermazione Judith colse una malcelata nota di sconforto. Era disperato. "Dovresti sapere una cosa..." continuò Dowd.

"Non voglio sentire nulla," rispose Judith.

"No, ascoltami, tesoro, desidero che tu sappia... che lui ha fatto a me esattamente la stessa cosa, proprio su questo tavolo. Mi ha sbudellato davanti a tutta la Società."

"Li hai ammazzati tutti per questo?"

"Chi?"

"Quelli della Società."

"No, non ancora. Ma lo farò. Per noi due."

"Arrivi tardi. Sono già tutti morti."

Questa asserzione prese Dowd di sorpresa e lo lasciò senza parole per almeno quindici secondi. Quando ricominciò a parlare, lo fece a monosillabi, vuoti quanto il silenzio che cercavano di colmare. "Dev'essere stata quella dannata Epurazione, sai; si erano inimicati troppa gente. Nei prossimi giorni ci sarà un buon numero di Maestri minori che faranno la stessa fine. Be', è proprio una bella notizia. Penso che mi ubriacherò come dico io. E tu? Come hai intenzione di festeggiare? Da sola o con gli amici? Quella donna che hai trovato, per esempio. E il tipo con cui si può festeggiare?"

Jude si pentì di aver parlato in proposito.

"Chi è?" chiese Dowd. "Non dirmelo, Clara aveva una sorella." Rise. "Mi dispiace, non dovrei ridere, ma quella donna era matta da legare, lo vedrai. Lei non ti capiva. Nessuno ti comprende a parte il sottoscritto, tesoro, e io ti capisco..."

"... perché siamo uguali," lo precedette Judith.

"Esatto. Non apparteniamo più a nessuno, ora. Siamo invenzioni di noi stessi. Faremo quello che vorremo e non ce ne importerà un fico secco delle conseguenze che ne verranno."

"È questa la libertà?" domandò Jude in tono piatto, distogliendo finalmente gli occhi da Oscar e guardando il viso sfigurato del suo interlocutore.

"Non venire a dirmi che non la vuoi," affermò Dowd. "Io non ti sto chiedendo di amarmi per questo, non sono così stupido, ma almeno ammetti che era proprio giusto."

"Perché non lo hai semplicemente ucciso quando era nel suo letto anni fa?"

"Perché non ero abbastanza forte. Oh, mi rendo conto che anche adesso non sono un concentrato di salute e di efficienza, ma sono cambiato molto dall'ultima volta che ci siamo visti. Sono stato tra i morti. E stato alquanto... educativo. E, mentre ero laggiù, è cominciato a piovere. Una pioggia davvero forte, tesoro, lascia che te lo dica. Non ne avevo mai viste così. Vuoi vedere che cosa mi è caduto addosso?"

Rimboccò una manica e mise il braccio sotto la luce. Ecco la ragione del suo stato. Sul suo braccio, e molto probabilmente su tutto il corpo, la carne era stata tutta ricucita insieme a frammenti di pietra che gli erano penetrati nelle ferite. Judith riconobbe all'istante l'iridiscenza che correva in quei frammenti e faceva risplendere la carne maciullata. La pioggia che gli era caduta addosso erano le macerie del Cardine.

"Tu sai che cos'è, vero?" le domandò Dowd.

Jude odiò la facilità con cui quell'uomo le leggeva dentro, ma non c'era motivo di negare. "Sì, lo so," rispose. "Mi trovavo nella Torre quando è cominciata a crollare."

"Che manna, vero? Mi rende lento, naturalmente, tutto questo peso, ma da oggi non dovrò più inseguire e rincorrere, perciò, che mi frega se impiego mezz'ora per attraversare questa stanza?"

Si fermò e ritirò il braccio da sotto la luce. "Che cos'è stato?"

Judith non aveva udito nulla prima, ma ora la sentì; un brontolio remoto che veniva dai piani inferiori.

"Che cosa stavi facendo laggiù? Spero non avessi intenzione di distruggere la biblioteca. Volevo farlo io, per una mia personale soddisfazione. Oh, Dio, Be', ci saranno altre occasioni per giocare a fare i barbari."

I pensieri di Judith erano volati a Celestine. Dowd era capacissimo di farle del male. Doveva tornare giù e avvisare la Dea; forse sarebbe anche riuscita a trovare il modo di difendersi. Nel frattempo, sarebbe stata al gioco.

"Dove andrai, dopo?" gli chiese, con il tono più disinvolto che riuscì a scovare.

"Penso che ritornerò a Regent's Park Road. Possiamo dormire nel letto del nostro padrone. Oddio, che cosa sto dicendo? Per favore, non pensare che desideri il tuo corpo. So che il resto del mondo sogna il tuo grembo, ma sono stato casto per duecento anni e ho perso completamente l'istinto. Possiamo vivere come fratello e sorella, non vuoi? Non dovrebbe essere male, no?"

"No," rispose Judith, lottando contro la tentazione di sputargli addosso il disgusto che provava. "No, infatti."

"Bene, allora perché non vai ad aspettarmi giù di sotto? Devo fare ancora qualcosa qui. È necessario seguire tutti i rituali."

"Come vuoi," replicò Jude.

Lo lasciò alle sue faccende e ridiscese. Il brontolio che aveva attratto la loro attenzione era cessato, ma Jude si affrettò giù per le scale in cemento con la speranza in cuore. La cella era aperta, lo sapeva. In pochissimi secondi avrebbe messo gli occhi sulla Dea e, cosa più importante, Celestine avrebbe messo i suoi su Judith. Per un certo verso, ciò che Dowd aveva detto era vero. Morto Oscar, lei era veramente libera dalla maledizione della sua stessa nascita, Era tempo di conoscersi e di farsi conoscere.

Mentre camminava tra le stanze della casa di Roxborough e si dirigeva giù per le scale della cantina, avvertì il cambiamento che si era verificato nel labirinto. Non dovette penare per trovare la cella; l'energia nell'aria si muoveva come una marea invisibile e la accompagnava verso la sua fonte. Ed eccola lì, davanti a lei: della parete della cella era rimasto un mucchio di sassi e macerie che arrivava fino al soffitto. La dissoluzione cui lei aveva dato il via non era ancora finita. Anche mentre si avvicinava, i mattoni cadevano, la calce si sfarinava. Superò la cascata di polvere, risalendo sulla montagna di detriti per sbirciare all'interno della cella. Era buio, là dentro, ma i suoi occhi indovinarono subito la forma fasciata della prigioniera che era distesa per terra.

Non si muoveva. Jude le si avvicinò, cadde ai suoi piedi e cominciò a strappare le fasce con cui Roxborough o i suoi agenti l'avevano legata. Erano però troppo spesse per le sue dita, sicché provò con i denti. Le fasce erano strette ma i suoi denti erano forti e, una volta riuscita a spezzare la prima, le altre cedettero più facilmente. Un fremito percorse quel corpo immobile, come se la prigioniera avesse avvertito il momento della liberazione. Com'era successo con i mattoni, il messaggio di liberazione doveva essere contagioso, e Judith era riuscita a tagliare solo una mezza dozzina di fasce quando le rimanenti cominciarono a sciogliersi da sole, aiutate dal movimento del corpo che avevano tenuto legato per tanto tempo. Jude fu colpita sulla guancia dall'estremità di una di queste fasce e si ritrasse istintivamente. Le fasce descrivevano dei movimenti sinuosi e le loro estremità erano come luminescenti.

I tremori del corpo di Celestine si trasformarono in convulsioni sempre più intense quanto più la danza delle fasce incalzava. Judith si rese conto che non si trattava semplicemente di una danza incontrollata: le fasce saettavano in ogni direzione, sul soffitto e sulle pareti. L'unico modo per Judith di evitare una seconda frustata era ritirarsi verso l'apertura da cui era passata e poi fuori dalla cella.

Lì udì la voce di Dowd provenire dal labirinto dietro di lei: "Che cosa stai facendo, tesoro?"

Non credeva ai suoi occhi. Sebbene fosse stata lei a innescare , quella liberazione, non ne era la causa diretta. Le fasce sembravano possedere una loro volontà e - fosse stata Celestine a muoverle o Roxborough, che aveva dato le istruzioni di distruggere chiunque avesse tentato di liberare la prigioniera - non c'era modo di placarle né di fermarle. Alcune colpivano gli stipiti già erosi della porta, facendo crollare i mattoni. Altre, mostrando un'elasticità che Jude non si sarebbe mai aspettata, scavalcavano i detriti, rivoltando pietre e libri.

"Oh, mio Dio," udì Dowd dire, si girò e lo vide nel passaggio a meno di sei metri da lei, con il bisturi in una mano e un fazzoletto insanguinato nell'altra. Quella era la prima immagine che aveva di lui dalla testa ai piedi, e l'opera dei frammenti del Cardine era evidente. Sembrava piuttosto goffo, le spalle erano inclinate in modo disuguale, la gamba sinistra era rivolta verso l'interno, come se un osso fosse stato rotto e mal aggiustato.

"Che cosa c'è là dentro?" chiese, indicando oltre Judith. "È la tua amica?"

"Ti suggerisco di non avvicinarti," rispose Judith.

Dowd la ignorò. "L'ha murata Roxborough? Guarda che roba! È un'Oviate?"

"No."

"Che cos'è allora? Godolphin non me ne ha mai parlato."

"Non lo sapeva."

"E tu sì?" le domandò fissandola mentre si avvicinava per osservare le fasce che continuavano a uscire. "Sono esterrefatto. Ci siamo entrambi tenuti dei piccoli segreti, vero?"

Una delle fasce scattò all'improvviso dai detriti e Dowd fece un balzo all'indietro. Il fazzoletto gli scivolò di mano. Durante la caduta si spiegò e il pezzo della carne di Oscar che Dowd vi aveva avvolto cadde nella sporcizia. Non era che un pezzo informe, ma Judith lo conosceva bene. Dowd gli aveva tagliato il membro e se l'era preso con sé come portafortuna.

Judith fece una smorfia di disgusto. Dowd cominciò a zoppicare per tentare di raccoglierlo, ma l'ira che Jude fino a quel momento aveva celato per il bene di Celestine scoppiò tutto a un tratto.

"Pezzo di merda!" gli urlò avvicinandogli con le mani strette in un unico pugno alzato sopra la testa.

Dowd era pesante e non riuscì ad alzarsi in tempo per parare il colpo. Judith lo colpì sul collo, una botta che fece più male a lei che a lui, ma ebbe l'effetto di sbilanciare un corpo già barcollante. Vacillò, preda della forza di gravita, e cadde in mezzo alle macerie. Colpito nell'orgoglio, Dowd si infuriò.

"Sei una vacca!" la insulto. "Una stupida vacca sentimentale! Raccoglilo! Forza, raccoglilo! Prenditelo, se vuoi."

"Io non lo voglio."

"No, insisto. È un regalo, da fratello a sorella."

"Io non sono tua sorella! Non lo sono mai stata e mai lo sarò!"

Le termiti cominciarono ad apparire sulla bocca di Dowd, alcune grasse come scarafaggi, nutrite dalla rabbia che lui aveva in corpo. Non sapeva se fossero apparse per attaccarla o per proteggere Dowd contro la presenza dietro la parete, ma Jude non perse tempo a chiederselo e indietreggiò immediatamente.

"Ti perdonerò," disse Dowd magnanimo. "Sei sconvolta, lo so." Tese un braccio. "Aiutami ad alzarmi," chiese. "Dimmi che ti dispiace e dimenticherò tutto."

"Io odio tutto ciò che ti riguarda," ribatté Judith.

A parte le termiti, era l'istinto di autoconservazione che la faceva parlare, non certo il coraggio. Quello era uno scontro. La verità le avrebbe dato un maggior vantaggio rispetto alla bugia, pur se diplomatica.

Dowd ritirò il braccio e cercò di sollevarsi da solo. Nel frattempo, Jude avanzò di un paio di passi e si chinò a raccogliere il fazzoletto insanguinato con ciò che restava di Oscar. Rialzatasi, quasi in colpa per quello che aveva fatto, notò un movimento nella parete. Una forma pallida era apparsa contro il buio della cella, tanto piena e rotonda quanto scrostata era la parete su cui si stagliava. Celestine oscillava, o piuttosto si innalzava, come aveva fatto Quaisoir, su strisce di carne, filamenti che l'avevano avvolta aderendo ai suoi arti come i brandelli di un mantello e rivestendole il viso come un cappuccio vivente. Il volto rivelava lineamenti delicati, ma severi, e la bellezza che una volta aveva illuminato quel viso era guastata dalla demenza che vi ardeva. Dowd stava ancora tentando di rialzarsi, ma si voltò per seguire lo sguardo attonito di Jude. Quando i suoi occhi incontrarono quell'apparizione, il suo corpo cedette di nuovo, e Dowd tornò a cadere a pancia sotto tra i detriti. Dalla bocca ricoperta di termiti uscì una sola parola di terrore.

"Celestine?"

La donna era arrivata al limite della cella e ora sollevava le mani per toccare i mattoni che l'avevano tenuta rinchiusa così a lungo. Sebbene li sfiorasse appena, questi sembravano sciogliersi per unirsi alle macerie. Adesso c'era spazio sufficiente per uscire, ma la Dea si ritrasse e parlò dall'ombra, le pupille che brillavano di una luce folle, le labbra arricciate dietro i denti, come se fosse sul punto di rivelare qualcosa di orribile. Rispose all'unica parola pronunciata da Dowd con un altro nome: "Dowd."

"Sì..." mormorò Dowd. "Sono io."

Quindi, almeno in parte, era vero che si erano conosciuti, pensò Judith. Celestine lo conosceva, proprio come lui aveva detto di conoscerla.

"Chi ti ha fatto questo?"

"Perché me lo chiedi," domandò a sua volta Celestine, "dato che tu partecipavi al complotto?" Il tono di voce rivelava la stessa miscela di pazzia e di compostezza del corpo, toni melliflui accompagnati da un'eccitazione che era come una seconda voce che si esprimesse contemporaneamente alla prima.

"Io non sapevo, te lo giuro," affermò Dowd. Tentò di voltare il capo pesante verso Judith. "Diglielo," le intimò.

Lo sguardo vacillante di Celestine si rivolse a Jude.

"Tu?" disse. "Tu hai cospirato contro di me?"

"No," replicò Judith. "Io ti ho liberato."

"Io mi sono liberata da sola."

"Ma sono stata io a iniziare," la corresse Judith.

"Avvicinati. Lascia che ti osservi meglio."

Jude ebbe un momento di esitazione osservando la bocca di Dowd ancora ricoperta di termiti. Ma Celestine ripeté la richiesta e Jude obbedì. Mentre Jude si avvicinava, la donna sollevò il capo voltandolo da un lato e poi dall'altro, forse per ravvivare i muscoli intorpiditi.

"Sei la donna di Roxborough?" le domandò.

"No," rispose Judith.

"Va bene così, fermati," le disse. "Di chi allora? A chi appartieni?"

"Non appartengo a nessuno," rispose Jude. "Sono tutti morti."

"Anche Roxborough?"

"È morto duecento anni fa."

Gli occhi smisero di lampeggiare e la loro immobilità risultò peggiore del movimento. Lo sguardo di Celestine avrebbe potuto tagliare l'acciaio.

"Duecento anni," ripeté. Non era una domanda, era un'accusa. E non era rivolta a Judith, ma a Dowd. "Perché non sei venuto a cercarmi?"

"Pensavo fossi morta e sepolta," rispose Dowd.

"Morta. No. Sarebbe stato troppo bello. Io ho portato in grembo un bambino. L'ho cresciuto per un po'. Tu lo sapevi."

"Come potevo? Non era affar mio."

"Sei tu che hai fatto di me un affar tuo," ribatté seccamente Celestine. "Il giorno che mi hai preso la vita e mi hai consegnato a Dio, Io di certo non te l'ho chiesto e nemmeno lo volevo..."

"Ero solo un servitore."

"Ti correggo, un cane. Chi è che ti tiene al guinzaglio, adesso? Questa donna?"

"Non servo più nessuno."

"Bene. Allora sarai il mio servo."

"Non fidarti," disse Jude a Celestine.

"Di chi vorresti che mi fidassi?" chiese Celestine senza degnarsi di guardare negli occhi Jude. "Di te? Non credo proprio. Hai le mani sporche di sangue e puzzi di coito."

Queste ultime parole erano talmente intrise di disgusto che Judith non seppe come ribattere.

"Non saresti qui, ora, se non fosse stato per me."

"Considera la possibilità di andartene di qui sana e salva come il mio ringraziamento," replicò Celestine. "Ti assicuro che non gradiresti troppo a lungo la mia compagnia."

Judith non stentò a crederle. Dopo tutti quei mesi durante i quali non aveva fatto altro che pensare a quell'incontro, non aveva scoperto niente di nuovo se non che Celestine era folle e che la sua collera era gelida.

Dowd, nel frattempo, era quasi riuscito a rimettersi in piedi. Uno dei nastri della Dea si era srotolato e si era teso verso di lui. All'inizio Dowd rifiutò l'aiuto, ma poi cedette. Aveva assunto una sospettosa aria di umiltà. Non solo aveva cessato di porre resistenza, ma addirittura tendeva le proprie mani congiunte verso Celestine affinché lo afferrasse per entrambi i polsi. Celestine non rifiutò l'offerta. Il nastro di carne si arrotolò intorno ai polsi tesi, poi strinse e lo aiutò a rialzarsi.

"Attenta," l'avvisò Judith. "È più forte di quanto sembri."

"Ha perduto tutto," replicò Celestine. "I suoi trucchi, il pudore, la sua forza. Niente di tutto questo gli appartiene più. È un attore. Non è forse vero?"

In segno di assenso, Dowd chinò il capo. Contemporaneamente, puntò i tacchi tra i detriti per non essere sollevato oltre. Jude stava per lanciare un secondo allarme, ma prima che potesse proferire parola le dita di Dowd chiuse strattonarono forte i filamenti di carne. Colta di sorpresa, Celestine fu scagliata contro il bordo dell'apertura nel muro, e prima che i filamenti potessero soccorrerla, Dowd aveva alzato i polsi sopra il capo con violenza, lacerando il nastro di carne che li teneva stretti. Celestine emise un gemito di dolore e cercò rifugio nella propria cella, leccandosi la ferita. Dowd non desistette, anzi, si lanciò all'inseguimento, urlandole dietro mentre inciampava tra i detriti: "Io non sono il tuo schiavo! Non sono il tuo cane! E tu non sei una fottuta Dea! Sei una puttana!"

Sparì nell'oscurità della cella. Judith si avventurò di pochi passi verso l'apertura, ma i due contendenti si erano ritratti nei meandri della cella e Judith non riuscì a vedere nulla della loro lotta pur se udì tutto: l'accelerazione del respiro nel momento del dolore; il rumore dei corpi che urtavano contro la pietra. Le pareti tremarono e i libri sugli scaffali del corridoio caddero, la marea di violenza si liberò facendo mulinare fogli e opuscoli in aria come uccelli in un ciclone, mandando i tomi più pesanti a sfracellarsi a terra.

E poi, improvvisamente, tutto finì. Il movimento nella cella cessò e ci fu qualche secondo di brusio, interrotto da un gemito e dalla visione di una mano che cercava di trovare una via attraverso la parete rotta. Un momento dopo apparve Dowd, che con l'altra mano si copriva la faccia. Se le pietre che gli erano state cucite nel corpo erano forti, la carne che li conteneva era però debole, e Celestine aveva sfruttato quella debolezza con la violenza di un guerriero. A Dowd mancava metà del viso, strappata fino all'osso, e il suo corpo era ancor più devastato di quello che giaceva sul tavolo al piano superiore: l'addome era aperto, le membra sanguinavano.

Cadde subito dopo. Non tentò di risollevarsi - cosa che Jude dubitava potesse fare - ma strisciò sui detriti come un cieco, le mani che preparavano la strada ripulendola dalle macerie più grosse. Di tanto in tanto si sentivano dei gemiti, degli scoppi di pianto, ma lo sforzo della fuga consumava velocemente quel poco di forza che gli era rimasta e, prima che potesse raggiungere il terreno sgombro, si fermò e ogni suo lamento cessò. E dopo pochi secondi spirò. Aveva le braccia sotto il corpo e cadde con la faccia sul pavimento ricoperto di libri.

Jude osservò quel corpo per dieci secondi, poi si diresse verso la cella. Gli si avvicinò e notò un movimento inconsulto che la fece raggelare. C'era ancora vita in quel corpo, per quanto non sua. Le termiti stavano uscendo dalla bocca di Dowd, come pulci che si affrettino a lasciare l'ospite che si sta raffreddando. Uscivano anche dalle narici e dalle orecchie. Senza le istruzioni del loro padrone, probabilmente erano innocue, ma Jude non aveva alcuna intenzione di mettere alla prova la loro innocuità. Si allontanò quanto più poté, scegliendo una rotta indiretta sopra la montagna di macerie per arrivare sulla soglia della cella di Celestine.

Le ombre si erano ispessite a causa della polvere che danzava nell'aria, conseguenza delle forze che si erano liberate all'interno. Ma Celestine era visibile. Giaceva rannicchiata contro la parete opposta. Dowd non era riuscito a farle del male, questo era fuor di dubbio. La carne pallida era graffiata e scalfita sulla coscia, il fianco e la spalla. Lo zelo purificatore di Roxborough aveva ancora un certo controllo sulla Torre, pensò Judith. Nel giro di un'ora aveva abbattuto tre apostati: uno sopra e due di sotto. Di tutti, la prigioniera Celestine sembrava quella meno sofferente. Anche se ferita, aveva ancora la forza di alzare lo sguardo in direzione di Judith e di dire: "Sei venuta per cantare vittoria?"

"Ho cercato di avvertirti," rispose Jude. "Non voglio che siamo nemiche, Celestine. Voglio aiutarti."

"Per conto di chi?"

"Per mio conto. Perché devi classificare tutti come schiavi, puttane o come cani al servizio di qualcuno?"

"Perché è così che va il mondo."

"Il mondo è cambiato, Celestine," ribatté Jude.

"Come? Gli umani non esistono più?"

"Non è degli umani essere schiavi."

"Come fai a saperlo?" l'interrogò la donna. "Io non sento odore di umanità in te. Sei anche tu, in un certo senso, un impostore, non è vero? Creata da un Maestro."

Questa asserzione avrebbe fatto molto male a Judith se fosse stata pronunciata da qualsiasi altra fonte, ma da quella donna, che era stata per così a lungo la luce della speranza e della salvezza, era la condanna minore che potesse ricevere. Aveva lottato tanto per essere qualcosa di più di una semplice copia forgiata in un utero artificiale. Ma con poche parole Celestine l'aveva ridotta a un miraggio.

"Non sei nemmeno naturale," aveva asserito Celestine.

"Nemmeno tu," rispose secca Judith.

"Ma una volta lo ero," ribatté Celestine. "E mi aggrappo a questo."

"Aggrappati a quello che vuoi, non cambierai comunque i fatti. Nessuna donna naturale avrebbe potuto sopravvivere qui sotto per due secoli."

"È stata la volontà di vendetta a tenermi viva."

"Contro Roxborough?" domandò Judith.

"Contro tutti loro, eccetto uno."

"Chi?"

"Il Maestro... Sartori."

"Lo conoscevi?" chiese Judith.

"Troppo poco," replicò Celestine.

Nella risposta Judith notò un tono di rammarico che non comprendeva, ma lei possedeva la chiave per confortarla e, nonostante le crudeltà di Celestine, Judith non aveva alcuna intenzione di tenerle nascosto ciò che sapeva.

"Sartori non è morto," disse.

Celestine aveva voltato il viso verso la parete, ma ora riportò lo sguardo su Jude.

"Non è morto?" chiese.

"Lo troverò per te, se vuoi," disse.

"Lo faresti davvero?" domandò Celestine.

"Sì," rispose Jude.

"Sei la sua donna?"

"Non esattamente," rispose Judith.

"Dove si trova? È vicino?"

"Non so dove sia. Da qualche parte in città."

"Sì. Vai a prenderlo. Per favore, vai a chiamarlo." Si alzò da terra. "Lui non mi conosce, ma io sì."

"Allora cosa devo dirgli?"

"Chiedigli se si ricorda... se si ricorda il Nisi Nirvana."

"Chi?" chiese Judith.

"Digli semplicemente così."

"Nisi Nirvana?"

"Esatto," confermò Celestine.

Judith si alzò e tornò verso l'apertura, dall'altra parte della cella. Quando fu sul punto di sparire, Celestine parlò di nuovo.

"Come ti chiami?" le domandò.

"Judith."

"Bene, Judith, non solo puzzi di coito, ma tieni in mano un pezzo di carne e continui a stringerlo. Qualunque cosa sia, lasciala."

Attonita, Jude si guardò la mano. Vi teneva stretto il membro di Oscar che penzolava per metà. Lo buttò in mezzo alla polvere.

"Ti preoccupi perché ti ho preso per una puttana?" chiese Celestine.

"Entrambe abbiamo commesso degli errori," replicò Judith fissandola negli occhi. "Anch'io pensavo che tu fossi la mia salvezza."

"Tu hai commesso un errore più grande," ribatté Celestine.

Jude non si degnò di rispondere a quell'ultima aspra affermazione, ma si diresse verso l'uscita della cella. Le termiti che erano fuoriuscite dal corpo di Dowd vagavano ancora senza meta alla ricerca di una via di scampo: la carne che avevano lasciato se ne era andata. Judith non ne fu sorpresa. Dowd era un attore nato. Avrebbe posticipato la scena di addio quanto più possibile, nella speranza di trovarsi al centro del palcoscenico nel momento in cui fosse calato il sipario. Un'ambizione vana. Quanto più veniva a conoscenza del dramma che si svolgeva intorno a lei, delle sue radici affondate nella leggenda di Cristo il Riconciliatore, tanto più si rassegnava ad avere in essa un ruolo minimo se non inesistente. Come il quarto dei Magi, cancellato dalla Natività, Judith non era ben vista nel Vangelo che sarebbe stato scritto; e avendo appurato con i propri occhi quanto fosse stata miserevole la fine del Testamento di un Re, decise che non avrebbe perso tempo a scriverne uno di proprio pugno.

 

49

 

I

 

Per quella notte Clem aveva finito. Dalle sette della sera precedente aveva battuto le strade della città per svolgere il compito che lo impegnava ormai ogni notte: prendersi cura di quei senzatetto troppo fragili o inesperti che, dormendo su letti di cartone e cemento, non sarebbero sopravvissuti a lungo alle insidie della strada. Mancavano solo due giorni al solstizio d'estate e le ore della notte si erano fatte brevi e piuttosto miti. Non era dunque il freddo il vero problema, bensì i predatori umani sempre pronti a tendere agguati ai più deboli. Dopo aver trascorso le ore dopo la mezzanotte a privarli delle loro vittime, Clem si ritrovava esausto, proprio come in quel momento, ma le emozioni che lo pervadevano gli impedivano di posare la testa sul cuscino e dormire. Aveva visto più miserie umane nei tre mesi in cui si era occupato dei senzatetto che nei quarant'anni precedenti. A pochi metri dagli imponenti simboli della giustizia, della fede e della democrazia della città, Clem aveva soccorso persone che vivevano oltre i limiti dell'indigenza: non avevano denaro, né speranza e molti (i casi più tristi) avevano perso l'equilibrio mentale. Nel corso delle sue peregrinazioni notturne Clem dimenticava almeno per qualche ora il vuoto che la scomparsa di Taylor gli aveva lasciato dentro, ma, una volta tornato a casa, sentiva una tale disperazione dentro di sé che, guardandosi allo specchio, la sua immagine riflessa gli appariva quasi gioiosa.

Quella notte, comunque, si era fermato più a lungo del solito per le strade della città. Al sorgere del sole, aveva capito che quasi sicuramente non sarebbe rimasto a dormire, ma in quel momento il sonno era l'ultima delle sue preoccupazioni. Erano trascorsi due giorni dalla Visitazione che, con i suoi racconti di creature angeliche, lo aveva spinto fino alla soglia della casa di Judith. Da allora non aveva più avuto segni della presenza di Taylor. Altri segni, non in casa, ma per la strada, rivelavano presenze soprannaturali e, di queste, Taylor costituiva solo una parte a lui molto cara.

Ne aveva avuto conferma soltanto poco prima. Subito dopo la mezzanotte un certo Tolland, personaggio notoriamente temuto dalla gente indifesa che dorme sotto i ponti e nelle stazioni di Westminster, era andato su tutte le furie nel quartiere di Soho. In un vicoletto aveva ferito due alcolizzati, il cui unico torto era stato quello di essersi trovati sul suo cammino quando la sua collera era esplosa. Clem non aveva assistito a quegli episodi: era arrivato quando Tolland era già stato arrestato. Aveva cercato di persuadere alcune persone, il cui letto e i pochi averi erano andati distrutti, ad abbandonare quei bassifondi, ma nessuno aveva mostrato di avere intenzione di seguirlo. Durante i vani tentativi di convincerli, una donna che fino a quel momento aveva sempre visto in lacrime gli aveva sorriso e detto che anche lui, quella notte, sarebbe dovuto rimanere lì all'aperto con loro anziché andare a ficcarsi sotto le coperte: stava per arrivare il Signore, e i primi a vederlo sarebbero stati quelli che si trovavano per strada. Se non fosse stato per la fugace riapparizione di Taylor nella sua vita, Clem non avrebbe dato ascolto alle chiacchiere di quella donna; ma troppe cose imponderabili erano nell'aria perché potesse ignorare anche solo il vago segnale di un evento miracoloso. Aveva domandato alla donna quale Dio dovesse arrivare. E lei aveva risposto, piuttosto sensatamente, che la cosa non aveva alcuna importanza: perché avrebbe dovuto preoccuparsi di quale Dio si trattasse? La sola cosa che contava era che stava arrivando.

Mancava un'ora all'alba e Clem stava attraversando il Waterloo Bridge poiché aveva saputo che, di solito, quel matto di Tolland se ne stava nella zona di South Bank; doveva essere accaduto qualcosa di strano se si era spinto di là dal fiume. Certo, si trattava solo di un segnale debole, ma era sufficiente per indurlo ad andare avanti, anche se la sua casa e il suo letto erano esattamente dalla parte opposta.

I bunker di cemento di South Bank erano stati una delle bestie nere di Taylor, che inveiva contro tale bruttura ogni volta che si parlava di architettura contemporanea. Il buio dissimulava le facciate grigie e sporche, trasformando allo stesso tempo il labirinto di sottopassaggi e di passaggi pedonali tutt'intorno in un territorio in cui nessun borghese sì sarebbe avventurato, per paura di essere ucciso o quanto meno derubato. Le recenti esperienze di Clem gli avevano insegnato a ignorare simili ansie. In labirinti come quello in cui si trovava adesso, solitamente gli individui erano più aggrediti che aggressori; le creature urlavano per difendersi da nemici immaginari, ma le loro invettive, per quanto terrificanti potessero apparire nell'oscurità, si riducevano il più delle volte a un pianto fragoroso.

In realtà, mentre raggiungeva l'altra sponda del ponte, Clem non aveva udito neanche un bisbiglio alzarsi dalle tenebre. Riusciva a scorgere quella città di cartone, i sobborghi rischiarati dalla luce fioca dei lampioni, mentre tutto il resto restava nascosto dai passaggi pedonali, immerso nel silenzio più totale. Cominciò a sospettare che quel lunatico di Tolland non fosse stato il solo a lasciare la sua zona per dirigersi a nord e, piegandosi per sbirciare nelle baracche di periferia, ne ebbe conferma. Procedeva nelle tenebre facendosi luce con la torcia tascabile. A terra c'era la solita sporcizia: avanzi di cibo, bottiglie rotte, chiazze di vomito. Ma le baracche e i letti fatti di giornali e di coperte luride erano vuoti. Sempre più incuriosito, Clem s'avventurò tra quella spazzatura, sperando di poter trovare almeno un'anima che, per la debolezza o la pazzia, non se ne fosse ancora andata e potesse spiegargli la ragione di quella fuga di massa. Attraversò invece quella città senza incontrare nessuno, ritrovandosi in una zona che i progettisti di quell'inferno di cemento definivano un parco giochi per bambini. Ciò che rimaneva delle loro buone intenzioni erano sudici frammenti di uno scivolo e la struttura di una rampa; il lastricato, tuttavia, era stato verniciato da poco. Proseguendo per la sua strada, Clem si trovò al centro di una strana esposizione: sparse ovunque al suolo, figure disegnate con gessetti colorati riproducevano stelle del cinema e ragazze seducenti.

Seguendo sul terreno la scia di immagini, il raggio di luce della pila tascabile condusse Clem a una parete, anch'essa decorata, ma da una mano completamente diversa. Quella non era opera di un semplice imitatore. L'immagine era talmente grande che Clem dovette spostare la luce più volte, avanti e indietro, per poterne cogliere tutto lo splendore. Evidentemente qualche gruppo di filantropi aveva deciso di ravvivare con un murale quell'ambiente infernale; il risultato della loro iniziativa era un paesaggio da sogno, con il cielo verde striato di un giallo forte e la superficie in basso color arancio e rosso. Era una città edificata sulla sabbia, circondata da mura e con fantastiche guglie. La torcia illuminò una parte del dipinto che sembrava luccicare. Clem si avvicinò alla parete, scoprendo che gli artisti dovevano aver smesso di lavorare da poco. C'erano chiazze di pittura ancora fresca. Visto da vicino, il dipinto appariva realizzato in modo estremamente disinvolto, quasi frettoloso. La città e le sue torri erano rese con una mezza dozzina di segni, mentre un unico colpo di pennello a zigzag disegnava l'autostrada che si snodava dalle sue porte.

Spostando la luce per illuminare la strada, Clem comprese perché i muralisti avessero dipinto frettolosamente. Avevano lavorato su ogni facciata disponibile, dando origine a una rassegna di immagini dai colori vivaci, molte delle quali persino più insolite di quel paesaggio con il cielo verde. Alla sinistra di Clem c'era un uomo: al posto della testa aveva due mani giunte, e un fulmine gli passava in mezzo ai palmi; alla sua destra una famiglia di persone orribili con i volti ricoperti di peli. Andando oltre, Clem vide uno scenario alpino reso bizzarro dalla presenza di parecchie figure femminili nude che ondeggiavano sulle nevi; più avanti c'era un prato cosparso di teschi, e in lontananza s'intravedeva un treno da cui usciva del fumo che si perdeva in un cielo dal colore accecante. Ancora più in là era stata dipinta un'isola in mezzo a un mare increspato da un'unica onda, dalla cui schiuma emergeva un volto. Tutte le immagini erano opera della stessa fretta appassionata, che conferiva al dipinto quell'immediatezza tipica degli schizzi e ne accresceva al tempo stesso la forza. Clem fu stranamente colpito dalle immagini, forse per la stanchezza, o più semplicemente per la stravaganza dell'ambientazione scelta per quella rassegna di disegni. Non avevano nulla di sdolcinato né di commovente. Erano sprazzi di immagini nate da menti bizzarre, e aver trovato simili meraviglie in quel posto stimolò Clem.

Seguendo con lo sguardo il cammino tracciato dai disegni, Clem aveva perso completamente il senso dell'orientamento, ma quando spense la torcia per poter individuare la luce dei lampioni, scorse un fuocherello che bruciava poco più avanti. Non vedendo altre luci, si avviò in quella direzione. Chi aveva acceso quel fuoco si trovava in un piccolo giardino circondato dal cemento. Forse un tempo lì c'erano state aiuole di rose o di arbusti rampicanti, panchine in ricordo di qualche notabile defunto. Ora invece c'era soltanto un misero praticello, che a stento riusciva a celare il sudiciume da cui spuntava. Riuniti su quel prato c'erano gli abitanti della città di cartone, o almeno alcuni di loro. La maggior parte dormiva infagottata in cappotti e coperte, ma cinque o sei persone erano sveglie e chiacchieravano in piedi intorno al fuoco, passandosi una sigaretta da una mano all'altra.

Un negro, attanagliato dalla paura, stava accovacciato sul muretto accanto al cancello del giardino; vedendo Clem si alzò per mettersi di guardia davanti all'entrata. Clem non si tirò indietro: nel movimento di quell'uomo non c'era alcunché di minaccioso e all'interno del giardino regnava la calma più assoluta. Dormivano tutti placidamente, forse cullati da dolci sogni. Le persone riunite intorno al fuoco parlavano sussurrando. Talvolta ridevano, senza però fare quel rumore forte, sguaiato, che aveva udito tra gruppi di quel genere: erano risate silenziose.

"Chi sei?" gli domandò il negro.

"Mi chiamo Clem. Mi sono perso."

"Hai l'aria di chi non ha dormito molto."

"È così."

"E allora perché sei qui?"

"Come ti ho già detto, mi sono perso."

L'uomo scrollò le spalle. "Waterloo Station è in quella direzione," gli disse, indicando vagamente la strada da cui Clem era venuto. "Ma dovrai aspettare parecchio prima di poter prendere un treno." Si accorse che Clem stava guardando il giardino, "Mi dispiace, non puoi entrare. Se hai un letto, vai a dormire."

Clem non si mosse. Qualcosa in uno degli uomini che stavano accanto al fuoco, con le spalle al cancello, inchiodava il suo sguardo.

"Chi è l'uomo che sta parlando in questo momento?" chiese alla sentinella.

Il negro si girò a guardare.

"È il Gentile," rispose.

"Il Gentile?" ripeté Clem. "Gentle, vorrai dire."

Non aveva alzato la voce per pronunciare quel nome, ma le sue sillabe dovevano essere rimbombate nell'aria tranquilla perché, non appena furono uscite dalla sua bocca, l'uomo smise di parlare, voltandosi lentamente verso il cancello. Clem era sicuro di non sbagliarsi, anche se il bagliore del fuoco dietro la sagoma rendeva difficile distinguerne i tratti. L'uomo si voltò di nuovo per dire ai suoi amici qualcosa che Clem non riuscì a sentire. Poi si allontanò dal fuoco, dirigendosi verso il cancello.

"Gentle? Sono Clem."

Il negro si fece da parte, aprendo il cancello a colui che aveva chiamato il Gentile. Questi uscì dal giardino, si fermò e studiò lo straniero.

"Ti conosco?" chiese. Non c'era ostilità nella sua voce, ma neppure calore. "Ti conosco, non è vero?"

"Sì, amico mio," replicò Clem. "Mi conosci."

 

Camminarono insieme lungo il fiume, lasciandosi alle spalle il fuoco e la gente addormentata. Clem si accorse subito di quanto fosse cambiato Gentle: non sapeva con esattezza chi fosse e aveva subito mutamenti ancor più radicali. C'era una schiettezza nel suo modo di parlare, nell'espressione del suo volto che allo stesso tempo preoccupava e tranquillizzava Clem. Qualcosa del Gentle che lui e Taylor avevano conosciuto era andato perso, forse per sempre, ma qualcos'altro l'avrebbe rimpiazzato, e Clem non voleva mancare nel momento in cui questo fosse avvenuto. Voleva essere l'angelo custode del suo inconscio.

"Hai fatto tu quei disegni?" gli chiese.

"Sì, con il mio amico Monday," rispose Gentle. "Li abbiamo dipinti insieme."

"Non ti avevo mai visto dipingere nulla di simile prima d'ora."

"Sono raffigurazioni dei posti in cui sono stato," spiegò Gentle. "E della gente che ho conosciuto. Quando ho i colori in mano, cominciano a tornarmi alla mente, ma con grande lentezza. Ho così tante cose in testa..." si portò le dita alla fronte: le ferite non erano ancora completamente guarite, "...e sono confuso. Tu mi chiami Gentle, ma io ho altri nomi."

"John Zacharias?"

"Quello è uno. Ma dentro di me c'è un uomo che si chiama John Bellamy, e uno di nome Michael Morrison, e un altro ancora di , nome Almoth, e poi c'è Fitzgerald e infine Sartori. Sembra che io sia tutte queste persone; ma è impossibile, vero? L'ho chiesto a Monday e a Carol, e all'Irlandese. Mi hanno detto che a volte le persone hanno due nomi, anche tre. Mai dieci."

"Forse hai vissuto altre vite, Gentle, che ora ti stanno riaffiorando alla mente."

"Se è così, non voglio ricordare. Fa troppo male. Non riesco a pensare lucidamente. Voglio essere un solo uomo con un'unica vita. Voglio sapere dove comincio e dove finisco, non voglio continuare all'infinito."

"Perché lo trovi così terribile?" gli chiese Clem, incapace di vedere l'orrore che una tale espansione dell'io poteva comportare.

"Perché ho paura che non finirà mai," replicò Gentle con la fermezza di un metafisico che, raggiunto un precipizio, descriva tranquillamente l'abisso sotto di sé a coloro che non hanno potuto - o voluto - essere lì con lui. "Temo di essere legato a tutte le cose," disse. "Così mi perderò. Ma io voglio essere questo o quell'uomo, non ogni uomo. Se sono chiunque, allora non sono niente e nessuno."

Smise di camminare e si voltò verso Clem. Gli posò le mani sulle spalle. "Chi sono?" gli chiese. "Dimmelo. Se mi vuoi bene, rispondimi. Chi sono?"

"Sei mio amico."

Non era una risposta molto eloquente, ma era l'unica che Clem fosse in grado di dargli. Gentle studiò per un minuto, forse più, il volto dell'amico, quasi volesse valutare l'efficacia di quell'assioma in rapporto al suo terrore. E lentamente, mentre ne studiava i tratti, un sorriso gli si disegnò sulle labbra e gli occhi cominciarono a riempirsi di lacrime.

"Tu mi vedi, vero?" chiese dolcemente.

"Certo che ti vedo."

"Non intendo con gli occhi, ma con la mente. Voglio sapere se esisto nella tua testa."

"Chiaro come il cristallo," disse Clem.

Era sincero in quel momento, più di quanto non lo fosse mai stato. Gentle fece un cenno col capo e sorrise.

"Qualcun altro ha cercato di insegnarmi tutto questo," disse. "Ma non l'ho capito." Si interruppe per riflettere. "Non importa come mi si chiama. I nomi non hanno alcun significato. Io sono ciò che sono dentro di te." Cinse Clem con le braccia per abbracciarlo. "Sono tuo amico."

Lo strinse forte e poi si scostò, asciugandosi le lacrime. "Chi me l'ha insegnato?" s'interrogava. "Judith, forse?" Scosse il capo. "Il suo viso mi torna di continuo alla mente," disse. "Ma non è stata lei. È stato qualcuno che è non c'è più."

"È stato forse Taylor?" suggerì Clem. "Ti ricordi di Taylor?"

"Anche lui mi conosceva?"

"Ti voleva bene."

"Dov'è adesso?"

"Questo non c'entra."

"Davvero?" replicò Gentle. "O invece è tutto collegato?"

 

Continuarono a camminare lungo il fiume, scambiandosi domande e risposte. Su richiesta di Gentle, Clem raccontò la storia di Taylor, dalla nascita alla morte, e da questa alla luce; Gentle, a sua volta, gli riferì tutto ciò che sapeva della natura del viaggio che aveva compiuto. Sebbene ricordasse solo pochissimi dettagli, era certo che lui, al contrario di Taylor, non aveva visto la luce. Aveva perso molti amici lungo il cammino - i loro nomi si mescolavano con quelli delle sue diverse vite - e aveva assistito a molte altre morti, ma aveva anche visto le meraviglie che aveva poi dipinto sui muri. Geli senza sole che brillavano di verde e di oro; un palazzo di specchi, simile a quello di Versailles; e ancora deserti immensi, misteriosi, e cattedrali di ghiaccio, dalle mille campane. Ascoltando quei racconti che lo portavano in mondi fino ad allora sconosciuti, Clem sentì che la serenità provata solamente poco prima, quando Gentle gli aveva raccontato del suo io infinito, vacillava di fronte a quella serie di avventure. Quelle stesse distinzioni da cui aveva cercato di dissuadere Gentle all'inizio del racconto, ora lo allettavano. Ma erano una trappola, e lui lo sapeva. Avrebbe finito col soffocare e cancellare la sensazione di benessere che provava. Doveva scrollarsi di dosso il suo modo di pensare, vecchio e ormai superato, se voleva accompagnare quell'uomo in luoghi in cui le anime dei morti erano una sorgente di luce e l'essere una funzione del pensiero.

"Perché sei tornato?" chiese a Gentle dopo un po'.

"Vorrei saperlo anch'io," fu la risposta.

"Dobbiamo trovare Judith. Forse ne sa più di noi."

"Non voglio abbandonare questa gente, Clem. Mi hanno accolto in mezzo a loro."

"Ti capisco," disse Clem. "Ma Gentle, loro non possono aiutarti in questo momento. Non capiscono quello che sta succedendo."

"Neanche noi," gli ricordò Gentle. "Ma sono stati ad ascoltarmi mentre raccontavo la mia storia. Mi hanno guardato dipingere e mi hanno fatto delle domande, e quando ho detto loro delle mie visioni, non si sono presi gioco di me." Fece una pausa e indicò il fiume, in direzione del Parlamento. "I legislatori giungeranno presto," disse. "Racconteresti loro ciò che ti ho appena raccontato? Se dicessimo loro che i morti resuscitano alla luce del sole e che ci sono mondi in cui il cielo è verde e oro, cosa pensi che direbbero?"

"Che siamo matti."

"Proprio così. E ci butterebbero in mezzo a una strada come Monday e Carol e l'Irlandese, e come tutti gli altri."

"Loro non stanno lì perché hanno avuto delle visioni, Gentle," gli disse Clem. "Se sono lì è perché qualcuno li ha ingannati, o forse si sono ingannati da soli."

"Questo significa che non sono in grado di nascondere la loro disperazione come gli altri. Non c'è nulla che possa distoglierli dal loro dolore. Perciò si ubriacano e danno i numeri, e il giorno dopo sono ancor più confusi di quanto non lo fossero il giorno prima. Tuttavia mi fido più di loro che di tutti i vescovi e i preti messi insieme. Forse sono nudi, ma questo non è uno stato di grazia?"

"Sono anche vulnerabili," sottolineò Clem. "Non puoi trascinarli in questa guerra."

"E chi ha parlato di guerra?"

"Judith," replicò Clem. "Ma anche se non l'avesse fatto lei, è nell'aria."

"Judith sa chi sarà il nemico?"

"No. Ma sarà una battaglia dura, e se davvero vuoi bene a questa gente, non portarli in prima linea. Ci saranno quando la guerra sarà finita."

Gentle meditò per qualche istante. Alla fine disse: "Quindi saranno loro i pacieri."

"E perché no? Potranno diffondere la buona notizia."

Gentle acconsentì. "L'idea mi piace," disse. "Piacerà anche a loro."

"Possiamo andare a cercare Judith adesso?"

"Mi sembra una buona idea. Ma prima devo andare a salutarli."

 

Si fece giorno mentre Clem e Gentle risalivano il fiume, e quando giunsero al sottopassaggio le ombre non erano più nere, ma cominciavano a colorarsi di grigio-azzurro. Alcuni raggi rischiaravano i ponti e le barriere di cemento, spostandosi lentamente in direzione dell'entrata del giardino.

"Dove sei stato?" domandò l'Irlandese a Gentle, andandogli incontro al cancello. "Pensavamo che te la fossi svignata."

"Voglio farti conoscere un amico," disse Gentle. "Questo è Clem. Clem, ti presento l'Irlandese, Carol e Benedict. Dov'è Monday?"

"Dorme," disse Benedict, la sentinella.

"Clem è il diminutivo di cosa?" chiese Carol.

"Di Clement."

"Io ti ho già visto," disse. "Non eri tu che distribuivi la minestra? È così, vero? Non dimentico mai una faccia."

Gentle oltrepassò il cancello ed entrò nel giardino. Il fuoco era quasi spento ma la brace, ancora calda, bastava per riscaldare le dita infreddolite. Si accovacciò accanto al fuoco e lo attizzò con un ramoscello, invitando Clem a riscaldarsi. Ma, non appena si fu chinato, Clem si fermò.

"Cosa c'è?" chiese Gentle.

Lo sguardo di Clem passò dal fuoco agli individui raggomitolati, che ancora sonnecchiavano. Erano una ventina, forse di più, immersi nel mondo dei sogni, anche se stava ormai cominciando ad albeggiare. "Ascolta," disse.

Uno di quelli che dormivano stava ridendo, così piano che si sentiva appena.

"Chi è?" chiese Gentle. Quel suono era contagioso e anche lui sorrise.

"È Taylor," rispose Clem.

"Non c'è nessuno con questo nome qui," disse Benedict.

"Certo che c'è, è lui," replicò Clem.

Gentle si alzò per guardare i dormienti. In un angolo del giardino era disteso, supino, Monday; una coperta gli copriva a malapena i vestiti schizzati di pittura. Un raggio della luce mattutina filtrava tra i pilastri di cemento per posarsi sul suo petto, illuminandogli il mento e le labbra pallide. Come se quella luce dorata lo solleticasse, rideva nel sonno.

"È quello che ha fatto i disegni insieme a me," disse Gentle.

"Monday," si ricordò Clem.

"Proprio lui."

Facendosi strada tra quei corpi addormentati, Clem si avvicinò al ragazzo. Gentle gli stava dietro, ma prima che riuscisse a raggiungerlo, la risata svanì. Il sorriso, però, continuava a illuminare il viso di Monday, mentre il sole rischiarava la peluria bionda che gli contornava il labbro superiore. Gli occhi erano ancora chiusi, ma quando parlò lo fece come se ci vedesse.

"Guarda chi c'è, Gentle," disse. "Il viaggiatore è tornato. Sono stupito, dico sul serio."

Non era esattamente la voce di Taylor - la laringe che la plasmava era quella di un uomo più giovane di vent'anni - ma la cadenza era la stessa, come la cordialità maliziosa con cui parlò.

"Clem deve averti detto che ero nei paraggi."

"Naturalmente," disse Clem.

"Sono tempi curiosi questi, vero? Ho sempre pensato di essere nato nell'epoca sbagliata. Ma sembra che io sia morto in quella giusta. Tanto di guadagnato, ma altrettanto di perso."

"Da dove comincio?" chiese Gentle.

"Sei tu il Maestro, Gentle, non io."

"Maestro io?"

"Sta ancora cercando di ricordare, Tay," spiegò Clem.

"In tal caso dovrebbe sbrigarsi," disse Taylor. "La vacanza è finita, Gentle. Adesso devi provvedere a sistemare le cose. C'è un vuoto infernale che aspetta solo di assorbirci, se non intervieni prima. E se ciò dovesse accadere..." il sorriso scomparve dal volto di Monday "...se ciò dovesse accadere, non ci sarà più alcuno spirito nella luce perché non ci sarà più luce. A proposito, dov'è la tua amichetta?"

"A chi ti riferisci?"

"Al mystif."

Il respiro di Gentle accelerò.

"Una volta l'hai perduta e io sono andato a cercarla. L'ho anche trovata mentre piangeva per la perdita dei suoi bambini. L'hai forse dimenticato?"

"Chi era?" volle sapere Clem.

"Non l'hai mai conosciuta," gli rispose Taylor. "Altrimenti la ricorderesti."

"Non credo che Gentle se ne ricordi," disse Clem, guardando il volto turbato del Maestro.

"Oh, il mystif è dentro di lui, da qualche parte," disse Taylor. "Una volta visto, non lo si può più dimenticare. Forza, Gentle. Pronuncia il suo nome, fallo per me. Ce l'hai sulla punta della lingua."

Un'espressione di dolore si dipinse sul volto di Gentle.

"È l'amore della tua vita, Gentle," proseguì Taylor, cercando di persuaderlo. "Di' il suo nome. Coraggio, dillo."

Gentle aggrottò le sopracciglia, mosse le labbra per parlare, ma restò muto. Alla fine pronunciò quel nome. "Pie..." mormorò.

Taylor sorrise.

"Sì..."

"Pie'oh'pah."

"Che ti avevo detto? Una volta vista, non la si dimentica."

Gentle pronunciò ancora quel nome, lo ripeté più volte, sussurrandone le sillabe come se fossero magiche. Poi si rivolse a Clem. "La lezione che non ho mai imparato," disse, "me l'aveva impartita Pie."

"Dov'è ora il mystif?" gli chiese Taylor. "Hai qualche idea?"

Gentle si accovacciò accanto a uno che dormiva vicino a Tay. "È andato," disse, riparandosi con le mani dalla luce del sole.

"Non farlo," gli disse dolcemente Taylor. "Così ti fai solo ombra." Gentle tolse le mani e lasciò che la luce gli si posasse sul palmo. "Hai detto che il mystif è andato," continuò Tay. "Andato dove, per amor del cielo? Come puoi averlo perso una seconda volta?"

"È andato nel Primo Dominio," rispose Gentle. "È morto e se n'è andato dove non potevo seguirlo."

"Mi spiace."

"Ma lo rivedrò, non appena avrò portato a termine la mia missione," continuò Gentle.

"Eccoci finalmente arrivati al punto," disse Tay.

"Sono il Riconciliatore," continuò Gentle. "Sono venuto ad aprire i Domini..."

"Proprio così, Maestro," incalzò Tay.

"... nella notte del solstizio d'estate."

"Ce l'hai fatta per un pelo," disse Clem. "Il giorno stabilito è domani."

"Si può fare," proseguì Gentle, alzandosi di nuovo. "Ora so chi sono. Lui non potrà più farmi del male."

"Lui chi?" gli chiese Clem.

"Il mio nemico," concluse Gentle, volgendo la faccia al sole. "Me stesso."

 

II

 

Dopo aver trascorso qualche giorno in quella città, quel nemico, colui che un tempo era stato l'Autarca Sartori, aveva cominciato a rimpiangere con tutte le sue forze le aurore languide e gli impareggiabili crepuscoli del Dominio da cui si era allontanato. Lì faceva giorno troppo in fretta e altrettanto velocemente il giorno finiva. Bisognava cambiare.

Tra i progetti per la nuova Yzordderrex, l'Autarca aveva previsto la costruzione di un palazzo fatto di specchi e di vetro che avrebbero trattenuto lo splendore di quei crepuscoli fugaci, prolungandolo fino all'arrivo della luce incandescente della nuova aurora. Solo così sarebbe stato felice.

Sapeva che non avrebbe trovato molta resistenza quando avesse deciso di impadronirsi del Quinto Dominio, almeno a giudicare dalla facilità con cui si era liberato dei membri della Tabula Rasa. Erano morti tutti tranne uno, braccati nei loro rifugi come parassiti rabbiosi. Nessuno era riuscito a resistergli per più di qualche minuto: si erano subito dati per vinti, con qualche singhiozzo e poche preghiere. Tanta viltà non l'aveva sorpreso. I loro antenati avevano un'inesauribile forza di volontà, ma persino lo spirito più mordace, tramandato di generazione in generazione, si affievoliva, e i figli dei figli dei loro figli non erano altro che dei perfidi codardi.

La sola, dolcissima sorpresa di quel Dominio era stata la donna nel cui letto si accingeva a tornare: l'ineguagliabile, eterna Judith.

L'aveva incontrata per la prima volta nella camera di Quaisoir quando, scambiandola per la donna che aveva sposato, avevano fatto l'amore su un letto di veli. Solo in seguito, mentre si apprestava a lasciare Yzordderrex, Rosengarten l'aveva informato della mutilazione di Quaisoir e gli aveva riferito dell'esistenza di una sua sosia che si aggirava nei corridoi del palazzo. Quella era stata l'ultima volta che il comandante Rosengarten si era rivolto a lui con lealtà. Quando, pochi minuti dopo, egli gli aveva ordinato di seguire il suo Autarca nel Quinto Dominio, il comandante si era categoricamente rifiutato. Il Secondo Dominio era la sua patria, aveva detto, Yzordderrex il suo orgoglio e, se doveva morire, voleva farlo guardando la Cometa. Era allettato dall'idea di punire Rosengarten per la sua insubordinazione, ma Sartori non desiderava entrare nel suo nuovo mondo con le mani sporche di sangue, sicché lo aveva lasciato andare ed era partito alla volta del Quinto Dominio. Era convinto che la donna con cui aveva fatto l'amore nel letto di Quaisoir si trovasse in qualche luogo della città che stava lasciando. Ma, non appena indossata la maschera di suo fratello, l'aveva incontrata di nuovo nel giardino dei fiori inodori di Klein.

Non aveva mai ignorato i presagi, buoni o cattivi che fossero. La ricomparsa di Judith nella sua vita era segno che appartenevano l'uno all'altro, e sembrava che anche lei, pur all'oscuro di tutto, avesse la stessa sensazione. Per amor suo egli aveva dato inizio a quella lunga, spiacevole sequenza di morte e desolazione, in sua compagnia si era sentito un altro, come se il solo vederla fosse sufficiente a riportare in vita ciò che era stato prima della caduta. Gli veniva offerta una seconda chance, l'opportunità di ricominciare con la persona che amava e di creare un impero che avrebbe cancellato il ricordo del fallimento precedente. Facendo l'amore, aveva avuto la prova che erano fatti l'uno per l'altro. Non avrebbe mai potuto immaginare armonia più perfetta di impulsi erotici. E quando si era recato in città, si era sentito forte e più che mai pronto ad affrontare la questione del massacro.

Ci sarebbe voluto del tempo, ovviamente, per convincerla che la loro unione era stata decisa dal fato. Judith credeva che lui fosse un altro, e si sarebbe vendicata se avesse scoperto la verità. Ma col tempo sarebbe riuscito a persuaderla. Doveva riuscirci. Aveva la sensazione che anche in quella città così allegra esistevano cose intollerabili: voci provenienti dall'oblio gli facevano apparire affascinante perfino l'Oviate più ripugnante. Lei poteva salvarlo da tutto ciò, curargli le ferite e cullarlo per farlo addormentare. Non temeva di poter essere respinto. Judith aveva in sé qualcosa che gli apparteneva, qualcosa che l'avrebbe indotta a mettere da parte tutte le sottigliezze della morale: suo figlio, concepito due notti prima.

Era il suo primo figlio. Aveva provato più volte con Quaisoir a fondare una dinastia, ma lei aveva sempre abortito e in seguito il suo corpo debilitato dall'abuso di kreauchee non era più riuscito a produrre ovuli. Judith, invece, era meravigliosa. Fare l'amore con lei non era stata soltanto un'esperienza straordinaria, la loro unione aveva anche dato i suoi frutti. Quando fosse giunto il momento (una volta morto quel, seccatore di Oscar Godolphin e interrotta la stirpe per la quale lei era stata appositamente creata), la donna si sarebbe resa conto della perfezione della loro unione e l'avrebbe sentita scalciare nel suo grembo.

 

III

 

Senza chiudere occhio, Jude aveva atteso il ritorno di Gentle dalle sue peregrinazioni notturne. Ciò che Celestine le aveva rivelato era troppo importante perché potesse riuscire a prendere sonno; voleva chiudere quella storia al più presto e scacciare il pensiero di quella donna. Non intendeva farsi trovare in uno stato di incoscienza quando lui fosse tornato. L'idea che Gentle arrivasse e la trovasse addormentata ora la sconvolgeva. Le aveva preso l'uovo e l'aveva leccato. Quando ne fosse tornata nuovamente in possesso e lui fosse tornato a Highgate Hill, allora si sarebbe presa il meritato riposo, non prima.

Era quasi giorno quando finalmente lui arrivò. La luce era troppo debole perché Judith riuscisse a decifrare l'espressione del suo viso e quando le fu vicino, si accorse che lui sorrideva. La rimproverò affettuosamente per averlo aspettato. Non ce n'era bisogno, disse; non correva pericoli. Vedendola inquieta, lui smise di prenderla in giro, domandandole cosa non andava.

"Sono stata alla Torre di Roxborough," gli rispose lei.

"Non da sola, spero. Non c'è da fidarsi di quella gente."

"Sono andata con Oscar."

"E come sta Oscar?"

Jude non aveva alcuna voglia di tirarla per le lunghe. "È morto," gli rispose.

Lui sembrò sinceramente rattristato dalla notizia. "Com'è successo?" chiese.

"Non ha importanza."

"L'ha per me," insistette. "Per favore, lo voglio sapere."

"C'era Dowd. Ha ucciso Godolphin."

"Ti ha fatto del male?"

"No, ci ha provato, ma non ci è riuscito."

"Non saresti dovuta andarci senza di me. Cosa diavolo ti ha spinta a farlo?"

Judith gli rispose nel modo più chiaro e semplice possibile. "Roxborough aveva un prigioniero," disse. "Una donna sepolta sotto la Torre."

"Ha tenuto per sé quel piccolo capriccio," disse Gentle. Jude individuò nel suo tono una sorta di ammirazione, ma si trattenne dall'accusarlo. "E quindi sei andata a dissotterrarne le ossa, è così?"

"Sono andata a liberarla."

Ora Judith aveva la sua più totale attenzione. "Non ti seguo," disse lui.

"Non è morta."

"Quindi non è un essere umano." Sul volto di Gentle apparve un sorriso improvviso. "Che ci faceva Roxborough là dentro? Allevava etère?"

"Non so cosa siano le etère."

"Sono delle prostitute molto raffinate."

"Non è la descrizione giusta di Celestine." Cercò di adescarlo, pronunciando lentamente quel nome, ma lui non abboccò. "È un essere umano. O almeno lo era."

"E adesso cos'è?"

Jude scrollò le spalle, "Una cosa... diversa. Non so esattamente cosa. È fortissima. Ha quasi ucciso Dowd."

"Perché?"

"Penso sia meglio che te lo faccia dire da lei."

"E perché dovrei farlo?" chiese Gentle con indifferenza.

"Ha chiesto di vederti. Dice di conoscerti."

"Davvero? Ti ha detto dove mi ha conosciuto?"

"No. Ma mi ha detto di menzionarti Nisi Nirvana."

Sentendo pronunciare quel nome, Gentle sogghignò.

"Significa qualcosa per te?" chiese Jude.

"Naturalmente, è una favola per bambini. Non la conosci?"

"No."

Mentre diceva no, Jude comprese perché non la conosceva, ma fu Gentle a dirlo per lei.

"È ovvio che tu non la conosca," disse. "Non sei mai stata bambina, vero?"

Judith studiò l'espressione del suo volto, per accertarsi che quella crudeltà fosse intenzionale. Tuttavia non era ancora sicura che l'indelicatezza che aveva avvertito, e che ancora percepiva, non fosse invece un aspetto di quella sua nuova ingenuità.

"Allora, andrai da lei?"

"Perché dovrei? Non la conosco."

"Ma lei ti conosce."

"Cosa c'è?" domandò. "Stai forse cercando di rifilarmi a un'altra donna?"

Fece un passo verso di lei. Judith cercava di nascondere la riluttanza che provava a essere toccata da lui, ma non riuscì a ingannarlo.

"Judith," disse. "Ti giuro che non conosco questa Celestine, È a te che penso quando non sono qui..."

"Non voglio parlare di questo ora."

"Cosa sospetti?" chiese. "Non ho fatto niente, lo giuro." Portò le due mani al petto. "Mi stai facendo del male, Judith. Non so se sia proprio questo che vuoi, ma lo stai facendo. Mi stai ferendo."

"È un'esperienza nuova per te, vero?"

"È per questo che lo fai? Una sorta di educazione sentimentale? Se è così, allora ti prego, Jude, non tormentarmi adesso. Abbiamo già troppi nemici per poter combattere anche tra di noi."

"Io non sto combattendo e non voglio combattere."

"Bene," disse Gentle aprendo le braccia. "Vieni qui allora."

Lei non si mosse.

"Judith."

"Voglio che tu vada da Celestine, le ho promesso che ti avrei trovato. Mi crederebbe una bugiarda se tu adesso non ci andassi."

"Va bene, ci andrò," disse. "Ma vado e torno immediatamente, amore, puoi starne certa. Chiunque sia e qualunque aspetto abbia Celestine, sei tu quella che voglio." Fece una breve pausa. "Adesso più che mai."

Judith sapeva che Gentle avrebbe voluto che lei gli chiedesse perché. E per una decina di secondi rimase in silenzio per non dargli soddisfazione. Ma l'uomo aveva una tale espressione sul volto che lei non poté trattenere oltre la sua curiosità, formulando la domanda che aveva sulla punta della lingua.

"Perché adesso?" gli chiese.

"Non avrei voluto ancora dirtelo..."

"Dirmi cosa?"

"Avremo un bambino, Judith."

Lei lo fissò, in attesa di ulteriori spiegazioni. Si aspettava che le dicesse di aver trovato un orfano per strada o che aveva portato un bimbo dai Domini. Ma non era questo che intendeva Gentle, e Jude, nel profondo del cuore che le martellava in petto, lo sapeva. Gentle intendeva proprio un bambino nato dal loro amplesso, una conseguenza della loro unione.

"Sarà il mio primo figlio," disse. "E anche per te sarà il primo, vero?"

Jude ayrebbe voluto dirgli che era un bugiardo. Come poteva saperlo lui, se lei non lo sapeva? Ma Gentle sembrava certo del fatto suo.

"Sarà un profeta," continuò, "vedrai."

Judith si rese conto che era vero. Quando l'uovo aveva fatto precipitare la coscienza nel suo corpo, lei era penetrata nella vita di quell'essere minuscolo. Aveva visto con gli occhi del suo piccolo spirito inquieto: una città-giungla e acque viventi; Gentle che arrivava, ferito, per prendere l'uovo da dita piccolissime. Era stata forse quella la prima delle sue profezie?

"Abbiamo fatto l'amore come nessun altro essere in questo Dominio," le stava dicendo Gentle. "Il bimbo è frutto di quell'amore."

"Sapevi ciò che stavi facendo?"

"Speravo che sarebbe successo."

"E io non avevo possibilità di scelta. Non sono che un utero, vero?"

"Non è così."

"Un utero che cammina!"

"Stai facendo apparire la cosa grottesca."

"Ma è grottesca."

"Che stai dicendo? Come può qualcosa di nostro non essere perfetto?" Parlando, la sua voce si animò di una sorta di fervore religioso. "Sto cambiando, cara. Sto scoprendo cosa voglia dire amare, prendersi cura delle persone a cui si vuol bene, fare progetti per il futuro. Lo vedi quanto mi stai cambiando?"

"Rispetto a cosa? Da grande amatore stai diventando un grande padre? Giorno nuovo, Gentle nuovo?"

Sembrò che Gentle avesse una risposta pronta, ma se la rimangiò. "Sappiamo che cosa significhiamo l'uno per l'altro," disse, invece. "Ne abbiamo dato prova. Ti prego, Judith..." Teneva le braccia ancora aperte, ma lei rifiutò di farsi abbracciare. "Quando sono arrivato qui, ti ho detto che avrei commesso degli errori e ti ho chiesto di perdonarmi se fosse successo. Te lo chiedo di nuovo, adesso."

Jude chinò il capo e lo scosse. "Va' via," disse.

"Vedrò questa donna, se vuoi che lo faccia. Ma prima di andarmene, voglio che tu mi giuri una cosa. Giura che non cercherai di fare del male alla creatura che porti in grembo."

"Va' all'inferno."

"Non lo dico per me. E nemmeno per il bambino. Lo dico per te, Jude. Se ti facessi del male per qualcosa che ho commesso, la vita non avrebbe più alcun senso per me."

"Non ho intenzione di tagliarmi i polsi, se è questo che pensi."

"Non è questo." , "E cosa allora?"

"Se cerchi di abortire, il bimbo si opporrà. Ha la nostra risolutezza, la nostra forza. Combatterà per la sua vita ed è probabile che tu ci rimetta la tua. Capisci ciò che cerco di dirti?" Judith scrollò le spalle. "Parlami."

"Non ho nulla da dirti che possa farti piacere. Va' a parlare con Celestine."

"Perché non vieni con me?"

"Basta. Vattene via."

Jude alzò gli occhi al cielo. Il sole illuminava il muro dietro Gentle, ma lui era in ombra. Per quanto determinato potesse essere, rimaneva pur sempre un fuggiasco, un bugiardo e un impostore.

"Ho intenzione di tornare," disse.

Lei non rispose.

"Se non sarai qui, saprò che cosa vuoi da me."

Senza aggiungere altro, si diresse verso la porta e uscì. Solo quando sentì sbattere l'uscio, Judith riuscì a scuotersi dallo stordimento che la paralizzava e si rese conto che Gentle aveva portato l'uovo con sé. Come tutti i narcisisti, anche lui amava la simmetria, e forse gli faceva piacere avere quel pezzo di lei in tasca, così come anche lei custodiva nel profondo di sé qualcosa che apparteneva a lui.

 

50

 

I

 

Gentle aveva conosciuto la gente del South Bank solo da poche ore, eppure separarsi da loro gli risultò difficile. In quel brevissimo arco di tempo si era sentito più tranquillo di quanto non gli fosse mai accaduto, neppure con persone che conosceva da anni. Erano uomini abituati alla sconfitta e le loro storie si somigliavano tutte perciò non c'erano finzioni né accuse: solo un pesante silenzio. Monday, la cui dedizione aveva risvegliato il forestiero dalla passività, fu l'unico a tentare di trattenere Gentle.

"Ci rimangono solo poche pareti da dipingere," disse, "e poi le avremo finite tutte. Qualche giorno, una settimana al massimo."

"Mi piacerebbe avere tanto tempo," gli confessò Gentle. "Ma non posso rimandare il mio lavoro."

Monday era rimasto addormentato mentre Gentle parlava con Tay, ma gli altri, e Benedict in particolare, avevano udito parole che li avevano incuriositi e meravigliati.

"Allora, qual è il compito di un Riconciliatore?" chiese Benedict a Gentle. "Se vai nei Domini, vogliamo venire con te."

"Non sto lasciando la Terra. Se e quando lo farò, sarete i primi a saperlo."

"E se non ti rivedessimo più?" domandò l'Irlandese.

"In quel caso avrò fallito."

"E dovremo pensare che sei morto e sepolto?"

"Esatto."

"Non può andargli male," esclamò Carol. "Non è vero, tesoro?"

"Ma che cosa ne faremo, di quanto abbiamo appreso?" continuò l'Irlandese, preoccupato dal carico di misteri che gravava su di loro. "Se tu ci lasci, tutto quello che sappiamo non avrà più senso per noi."

"Invece lo avrà," replicò Gentle. "Perché dovrete raccontarlo alla gente. In questo modo il ricordo rimarrà vivo finché la porta sui Domini non si aprirà."

"Allora, dovremo raccontare tutto alla gente?"

"A chiunque voglia ascoltare."

Mormoni di assenso attraversarono il gruppo. Ora, almeno, si vedeva un fine, un collegamento con la storia che avevano udito e con chi l'aveva raccontata.

"Se avessi bisogno di noi per qualsiasi cosa," avanzò Benedict, "sai dove trovarci."

"Certo," confermò Gentle, avviandosi con Clem verso il cancello.

"E che cosa dobbiamo dire se qualcuno viene a cercarti qui?" gridò Carol.

"Ditegli che ero un pazzo furioso e che mi avete buttato giù dal ponte."

La risposta sollevò risate sommesse.

"Questo è quello che diremo, Maestro," confermò l'Irlandese. "Ma sai che cosa ti dico? Che se non ritorni fra qualche giorno, verremo noi a cercarti."

 

Esauriti i saluti, Clem e Gentle si diressero verso Waterloo Bridge alla ricerca di un taxi che li conducesse da Jude. Non erano ancora le sei, il flusso del traffico a nord cominciava solo ora a diventare più intenso, eppure non riuscirono a trovare un'auto. Attraversarono a piedi il ponte nella speranza di incontrarne una sullo Strand.

"Di tutte le compagnie che hai avuto," osservò Clem durante il cammino, "questa è di sicuro la più strana."

"Se sei venuto a cercarmi lì," ribatté Gentle, "devi aver pensato di potermi trovare proprio in mezzo a quella gente."

"Suppongo di sì."

"E, credimi, ho frequentato compagnie ancor più strane. Molto più strane."

"Ti credo, e vorrei che un giorno mi raccontassi tutto il tuo viaggio. Lo farai?"

"Farò del mio meglio, ma sarà difficile senza una mappa. Ho continuato a promettere a Pie che ne avrei disegnata una; così, nel caso che avessi dovuto attraversare nuovamente i Domini e mi fossi perso..."

"... ti avrebbe ritrovato."

"Esattamente."

"E l'hai preparata?"

"No, non ne ho mai avuto il tempo. È successo sempre qualcosa che mi ha distratto."

"Dimmi quanto più... Ehi! Un taxi!"

Clem scese dal marciapiede e fece cenno al conducente di fermarsi. Salirono, e Clem diede l'indirizzo all'autista. Il tassista, mentre ascoltava, guardò nello specchietto retrovisore e chiese: "È qualcuno che conoscete?"

Entrambi si voltarono e videro Monday avvicinarsi di corsa. Dopo pochi secondi quel viso imbrattato di colori era già arrivato al finestrino del taxi e li implorava di prenderlo con loro.

"Devi permettermi di venire con te, capo. Non puoi lasciarmi qui. Ti ho prestato i miei colori, no? Dove saresti senza i miei colori?"

"Non posso rischiare che ti venga fatto del male," disse Gentle.

"Se mi faccio del male, il male è mio e la colpa anche."

"Andiamo o no?" chiese spazientito l'autista.

"Lasciami venire, capo. Per favore."

Gentle alzò le spalle e annuì. La smorfia implorante di Monday si trasformò in un'espressione di autentica gioia. Entrò rapidamente nel taxi, giocherellando con la scatoletta di tabacco che conteneva i gessetti.

"Ho portato i colori," disse. "Caso mai ne avessimo bisogno. Potremmo sempre dover disegnare velocemente un Dominio o qualcosa d'altro, giusto?"

 

Sebbene il tragitto fino a casa di Judith fosse relativamente breve, ovunque era evidente che i giorni di caldo insopportabile e di inutili temporali stavano lasciando il segno sulla città e sui suoi abitanti. A ogni angolo si udivano alterchi, alcuni addirittura in mezzo alla strada; sui volti di tutti si notavano rughe e scontento.

"Tay ha detto che sta per succedere qualcosa di grosso," osservò Clem, mentre aspettavano a un incrocio che due automobilisti finissero di prendersi reciprocamente per il collo. "Quello che stiamo vedendo c'entra qualcosa?"

"È pura follia, ecco cos'è," intervenne il tassista. "Negli ultimi cinque giorni ci sono stati più morti che in tutto l'anno scorso. L'ho letto da qualche parte. E non si tratta soltanto di omicidi: la gente si ammazza da sola. Un mio collega si trovava sull'Arsenal martedì, quando una donna si è buttata sotto il suo taxi. Proprio sotto le ruote anteriori. Cazzo, una vera tragedia."

I due contendenti erano stati finalmente separati e venivano ora accompagnati sui marciapiedi opposti.

"Non so cosa stia accadendo nel mondo," continuò l'autista. "Stiamo diventando tutti pazzi."

Terminata la predica, l'autista accese la radio. Quando il traffico riprese a scorrere, cominciò a fischiettare in modo stonato, accompagnando la canzone.

"Possiamo fare qualcosa per intervenire?" chiese Clem a Gentle. "Oppure dovremo solo arrenderci al peggio?"

"Spero che la Riconciliazione ponga fine a tutto questo. Ma non ne sono sicuro. Questo Dominio è stato isolato per troppo tempo, si è avvelenato da solo con la propria merda."

"Perciò quello che dobbiamo fare è abbattere quei dannati muri," affermò Monday, con l'entusiasmo di un distruttore nato. Ricominciò a giocare con la scatoletta dei colori, "Tu me li indichi," disse, "e io li abbatto. Semplice."

 

II

 

Il bambino era risoluto, aveva spiegato Gentle a Jude, e lei gli credeva. Ma che cosa significava questo, al di là della furia che si sarebbe scatenata se lei avesse tentato di abortire? Che sarebbe cresciuto più in fretta degli altri? Che al calar della sera la sua pancia sarebbe ingrossata e le acque sarebbero state pronte a rompersi prima di mattina? Era distesa sul letto, il caldo della giornata le pesava sulle membra. Sperava che tutte le storie ascoltate dalle bocche di madri raggianti di felicità fossero vere e che il suo corpo avrebbe fatto fluire nel sangue dei palliativi in grado di attenuare il trauma causato dall'impegno di nutrire e di espellere un'altra vita.

Quando suonò il campanello il primo impulso fu di ignorarlo, ma i suoi visitatori, chiunque fossero, insistevano, e finirono addirittura per mettersi a urlare alla finestra. Uno chiamava Judy; l'altro, stranamente, Jude. La donna si sedette e per un momento fu come se la sua anatomia si fosse modificata. Il cuore le batteva in testa e il pensiero parve sollevarsi a fatica dal profondo dello stomaco e formulare il proposito di alzarsi per andare ad aprire la porta. Da basso le voci continuavano a gridare, ma si spensero lentamente mentre Judith scendeva le scale. Giunta sulla soglia, era ormai sicura di non trovare più nessuno. Le apparve invece un adolescente imbrattato di colore, che, appena la vide, si girò e corse verso i suoi compagni, appostati dall'altra parte della strada per sbirciare nell'appartamento di Jude.

"Eccola," urlò. "Capo! Eccola!"

Mentre attraversavano la strada, il cuore di Jude, che ancora le batteva in testa, accelerò le sue pulsazioni a un ritmo suicida. La donna tese le braccia per cercare un appoggio, mentre l'uomo che stava accanto a Clem la guardò negli occhi e le sorrise. Non era Gentle. Per lo meno non assomigliava al Gentle dal viso perfetto che aveva rubato il suo uovo e se n'era andato alcune ore prima. Questo, sicuramente, non si rasava almeno da qualche giorno e aveva un sopracciglio ferito e ricoperto di croste di sangue. Jude si ritrasse dalla soglia, ma la sua mano mancò la maniglia della porta che voleva sbattere loro in faccia.

"Andatevene," disse.

Notando il panico che assaliva Jude, Gentle si bloccò a qualche metro dalla soglia. Il giovane si era girato verso di lui, e l'impostore gli fece cenno di allontanarsi. Il ragazzo ubbidì, lasciando libero il campo visivo tra i due.

"So che sono brutto come la fame," disse l'uomo con la faccia devastata. "Ma sono io, Jude."

Judith indietreggiò di qualche passo dalla luce in cui lui si trovava (come gli piaceva la luce!). Non come l'altro, che era sempre rimasto nell'ombra ogni volta che gli aveva messo gli occhi addosso. I muscoli della donna tremavano dalla testa ai piedi, in un crescendo di tensione, come se stesse per svenire. Afferrò la ringhiera della scala per non cadere. "Non può essere," mormorò.

Questa volta l'uomo non rispose. Fu Clem, suo complice in quella messa in scena, a dire: "Judy, dobbiamo parlarti. Posso entrare?"

"Solo tu," rispose Judith. "Loro no: solo tu."

"Solo io." Clem si avvicinò alla porta con le mani sollevate. "Che cosa è successo?" chiese.

"Non è Gentle," disse Judith. "Gentle è stato con me in questi ultimi due giorni e notti. Questo... non so chi sia."

L'impostore udì ciò che Judith stava raccontando a Clem. La donna intravedeva dietro la spalla dell'amico il viso di quell'uomo, sconvolto come se ogni parola rappresentasse per lui un colpo tremendo. Quanto più Jude cercava di spiegare a Clem quello che era successo, tanto più stentava a credere a quanto lei stessa diceva. Quel Gentle che aspettava fuori era l'uomo che aveva lasciato sui gradini dello studio, in piedi, sconcertato sotto il sole, proprio come ora. Ma se così era, allora l'amante che era venuto da lei, quello che aveva leccato l'uovo e l'aveva fecondata, era qualcun altro; un terribile "qualcun altro".

Lesse il suo nome sulle labbra di Gentle.

"Sartori."

Sentendo quel nome, Jude intuì subito la verità: il boia di Yzordderrex aveva trovato un posto nel suo letto, nel suo cuore, nel suo grembo. Jude rischiava di essere sopraffatta dalle convulsioni, ma intendeva restare attaccata al mondo solida il più possibile, convinta che questi uomini, nemici di Sartori, sapessero ciò che lui aveva fatto. "Entra," disse Judith a Gentle. "Entra e chiudi la porta."

Gentle fece entrare anche il ragazzo e lei non fece obiezioni. Poi, le chiese: "Ti ha fatto del male?"

"No," rispose. E quasi sperò il contrario; se solo Sartori avesse dato prova della sua spietatezza... "Mi avevi detto che era cambiato, Gentle," continuò. "Mi avevi detto che era un mostro; che era corrotto. Invece era esattamente come te."

Judith lasciò sfogare la rabbia che l'assaliva mentre parlava, rielaborando il disgusto che provava in una forma più pura e saggia. Gentle l'aveva fuorviata descrivendole il suo doppio come un uomo così corrotto dai propri atti che a stento lo si poteva definire umano. Ma nel sotterfugio di Gentle non c'era stata malizia; solo il desiderio di prendere le distanze da quella creatura che aveva il suo stesso volto. Ora Gentle comprendeva il suo errore e se ne vergognava. Si ritrasse, osservando Judith mentre i tremori che la percorrevano si calmavano. Aveva muscoli d'acciaio che la sostenevano e le davano la forza di finire il suo racconto. Non aveva motivo di tenere per sé l'ultima parte dell'inganno di Sartori. Ben presto sarebbe diventato evidente. Posò la mano sul grembo.

"Aspetto un bambino," disse. "Suo figlio. Il figlio di Sartori."

In un mondo più razionale, Jude avrebbe saputo interpretare l'espressione assunta dal volto di Gentle alla notizia, ma la sua complessità la mise a dura prova. In quel labirinto vi era rabbia, di sicuro; e sbalordimento. Ma non c'era anche una punta di gelosia? Gentle aveva rifiutato la sua compagnia, quando erano tornati dai Domini; la sua libido era stata inibita dalla nuova missione di Riconciliatore. Ora, però, che lei era stata toccata dal suo altro io e che aveva provato piacere con lui, il suo senso del possesso gli procurava un dolore atroce. Com'era sempre accaduto nella loro storia, ogni sentimento veniva contaminato dall'esagerazione. Fu Clem, il caro e dolce Clem, ad aprire le braccia, chiedendo: "Posso abbracciarti?"

"Oh, Dio, sì," rispose lei. "Certamente."

Le si avvicinò e la prese fra le braccia. Rimasero stretti per un po'.

"Avrei dovuto saperlo, Clem," sussurrò piano, in modo che Gentle o il ragazzo non sentissero.

"Con il senno di poi è facile giudicare," la interruppe Clem, baciandole i capelli. "Sono solo contento che tu sia viva."

"Non mi ha mai minacciata. Non mi ha mai toccata a meno che..."

"... non fossi tu a chiederglielo?"

"Non avevo bisogno di chiedergli nulla," replicò Judith. "Lo sapeva già."

Sentendo il rumore della porta d'entrata che veniva riaperta, Jude sollevò il capo dalla spalla di Clem e vide che Gentle stava uscendo al sole, seguito dal ragazzo. Una volta fuori, guardò in alto, si portò la mano alla fronte per proteggere gli occhi dal bagliore e studiò il cielo di mezzogiorno. Guardandolo, Judith riconobbe in lui l'osservatore del cielo che aveva visto nella Coppa Boston. Era solo un piccolo pezzo del puzzle che andava lentamente ricomponendosi, ma Judith non voleva rinunciare alla soddisfazione che le procurava.

"Sartori è il fratello di Gentle, vero?" domandò Clem. "Temo di non aver compreso ancora a fondo tutte le parentele."

"Non sono fratelli, sono gemelli," rispose Jude. "Sartori è la sua copia perfetta."

"In che senso perfetta?" chiese Clem, guardandola con un sorriso lieve, quasi sardonico.

"Oh... assolutamente perfetta."

"Perciò non è stato tanto brutto incontrarlo?"

Judith scosse il capo. "Non è stato affatto brutto," confermò. Poi, dopo un momento: "Mi ha detto che mi amava, Clem."

"Oh, Signore."

"E io gli ho creduto."

"Quante decine di uomini te lo hanno già detto?"

"Sì, ma lui era diverso..."

"Le ultime parole famose."

Judith volse lo sguardo all'uomo che scrutava il cielo, imbarazzata dalla calma che l'aveva pervasa. Forse il solo ricordo del suo incontro con lui bastava a sollevarla da ogni timore?

"A cosa pensi?" le domandò Clem.

"Che lui prova qualcosa che Gentle non ha mai sentito," rispose. "E che forse mai potrà. Prima che sia tu a dirlo, devo ammettere che tutta questa storia è disgustosa. Sartori è un distruttore, ha raso al suolo interi paesi. Come si può provare qualcosa per lui?"

"Vuoi che ti risponda con dei luoghi comuni?"

"Dimmi."

"Tu provi quello che provi. C'è chi va a caccia di marinai, e chi di uomini in tenuta elegante e con boa di struzzo. Facciamo quello che facciamo. Non ci si deve mai giustificare e tanto meno scusare. Ecco, questo è tutto quello che c'è da capire."

Judith pose le mani sul viso di Clem. Lo accarezzò e lo baciò. "Sei veramente sublime," gli disse. "Sopravvivremo, non è vero?"

"Sopravvivremo e prospereremo," aggiunse Clem. "Ma penso che sarebbe meglio per tutti se trovassimo il tuo bello..." Si interruppe sentendo che Judith lo stringeva più forte. Tutta la gioia era svanita dal suo volto. "Che cosa c'è?" chiese Clem.

"Celestine. L'ho mandato all'Highgate Hill, alla Torre di Roxborough."

"Scusa, ma non ti seguo."

"E una pessima notizia," disse Judith, sciogliendosi dall'abbraccio e correndo verso la porta.

Quando Gentle la vide apparire sulla soglia, distolse lo sguardo dal cielo e le si avvicinò, mentre Jude gli spiegava quello che aveva appena raccontato a Clem.

"Che cosa c'è all'Highgate Hill?" domandò Gentle.

"Una donna che voleva vederti. Il nome Nisi Nirvana ti dice niente?"

Gentle restò perplesso per qualche secondo.

"Mi pare che si tratti di una favola," disse.

"No, Gentle. Lei è vera. È viva. O almeno lo era."

 

III

 

Non era stato solo il sentimentalismo a indurre l'Autarca Sartori a far dipingere sulle pareti del suo palazzo le strade di Londra in ogni minimo dettaglio. Sebbene avesse trascorso solo un breve periodo in quella città poche settimane tra la nascita e la partenza per i Domini Riconciliati, Madre Londra e Padre Tamigi lo avevano educato in modo splendido.

Ovviamente, la metropoli che Sartori vedeva dal punto più alto dell'Highgate Hill, dove si trovava adesso, era più vasta e più grigia della città cui era tante volte tornato con il pensiero, ma vi erano ancora segni sufficienti a riportargli alla memoria ricordi intensi e aspri. In quelle strade, dalle professioniste di Drury Lane aveva appreso il sesso. Sulla riva del fiume l'assassinio, osservando i corpi avvolti nel fango una mattina di domenica, dopo le stragi del sabato sera. Aveva studiato legge al Lincoln's Inn Field e aveva visto fare giustizia a Tyburn. Tutte lezioni interessanti che lo avevano aiutato a diventare l'uomo che era. L'unica materia che non ricordava di avere appreso, in quelle o in altre strade, era l'architettura. Eppure era certo d'aver avuto un tutore in passato: non aveva forse, con la sua inventiva, edificato un palazzo che sarebbe rimasto nella leggenda, anche se ora le sue torri erano ridotte in macerie? La scintilla del suo genio si trovava nella fornace dei suoi cromosomi, o era forse nella sua storia? Forse avrebbe avuto la risposta costruendo la sua nuova Yzordderrex. Se fosse stato paziente e attento, il volto del suo mentore sarebbe apparso, prima o poi, sulle pareti.

Tuttavia, la posa delle nuove fondamenta sarebbe stata preceduta da una grande demolizione, e le banalità come la Torre della Tabula Rasa, che vedeva in quel momento, sarebbero state le prime a cadere. Fischiettando, attraversò il cortile fino alla porta principale. Si chiedeva se la donna che Judith aveva tanto insistito perché lui incontrasse - quella Celestine - poteva sentirlo fischiare. La porta era aperta, ma dubitava che qualche ladro, per quanto audace, avesse osato entrare. L'aria tutt'intorno era piacevolmente pungente, intrisa di potere, e gli ricordava l'amata Torre del Cardine.

Continuando a fischiettare, attraversò l'atrio per dirigersi verso la seconda porta. Entrò in una stanza che riconobbe. Aveva varcato quella soglia due volte nella sua vita: la prima, il giorno precedente la Riconciliazione, quando si era presentato a Roxborough, facendosi passare per il Maestro Sartori e assaporando il piacere perverso di stringere la mano ai patroni del Riconciliatore prima che il sabotaggio da lui stesso concepito li portasse all'inferno. La seconda volta era stata la notte dopo la Riconciliazione, quando i temporali avevano squarciato il cielo dal Vallo Adriano alla Finis Terrae. Allora era venuto con Chant - il suo nuovo domestico - con l'intenzione di uccidere Lucius Cobbitt, il ragazzo che era stato il suo ignaro emissario nel sabotaggio. Lo aveva cercato lungo Gamut Street e, non avendolo trovato, aveva sfidato la tempesta - intere foreste sradicate e sollevate in aria, e un uomo colpito dal fulmine a Highgate Hill - solo per scoprire che la casa di Roxborough era vuota. Non aveva più visto Cobbitt. Lontano dal suo occasionale Maestro, il giovane era probabilmente perito nella tempesta, così come tanti altri quella notte.

Ora non vi erano rumori nella stanza e anche lui restò in silenzio. I signori che avevano costruito quella casa e i loro figli che avevano innalzato la Torre erano morti. Era un silenzio di benvenuto. Si avvicinò al camino e si diresse verso le scale, scendendo in una biblioteca di cui aveva sino a quel momento ignorato l'esistenza. Era quasi tentato di rimanere a curiosare tra gli scaffali carichi di libri, ma la forza stimolante che aveva sentito sulla porta principale si era fatta più intensa che mai e lo spingeva oltre, coinvolgendolo sempre più, passo dopo passo.

Udì la voce della donna ancor prima di vederla. Proveniva da un luogo in cui la polvere era così fitta che sembrava di camminare sul delta di un fiume in una giornata di nebbia. Appena visibile attraverso quella polvere, un atto di vandalismo: libri, volumi e manoscritti erano ridotti a brandelli o sepolti tra i resti degli scaffali che li avevano ospitati. E, oltre i detriti, vi era un buco nel muro: proprio da lì proveniva la voce.

"Sei Sartori?"

"Sì," rispose.

"Avvicinati. Fatti vedere."

Si avvicinò al bordo del cumulo di detriti.

"Pensavo che non sarebbe riuscita a trovarti," continuò Celestine. "O che ti saresti rifiutato di venire."

"Come avrei potuto resistere a un richiamo come questo?"

"Credi che si tratti di una specie di convegno amoroso?" rispose la donna. "Un appuntamento segreto?"

La voce di Celestine era resa roca dalla polvere, e amara. Al Maestro piaceva quel tono. Le donne piene di rabbia erano sempre più interessanti delle loro appagate sorelle.

"Entra, Maestro," lo invitò Celestine. "Lascia che ti guardi bene."

Sartori sali sulla montagna di pietre e cercò di penetrare il buio con lo sguardo. La cella era un buco miserabile, sporco come tutto ciò che stava sotto quel palazzo, ma la donna che l'aveva occupato non era affatto un anacoreta. La sua carne non era raggrinzita dalla prigionia ma era ancora fresca, nonostante i segni che aveva addosso. I filamenti attaccati a quel corpo ne esaltavano la mobilità, agitandosi sulle cosce, sui seni e sull'addome come serpenti viscidi. Alcuni partivano dalla testa, arrivando fino alle labbra; altri giacevano beatamente tra le gambe. Sartori sentì lo sguardo tenero di Celestine posarsi su di lui e ne godette.

"Carino," commentò Celestine.

Il Maestro interpretò quel complimento come un invito ad avvicinarsi, ma il repentino brontolio di disapprovazione della donna lo distolse dal suo intento.

"Che cos'è quell'ombra in te?" chiese Celestine.

"Niente di cui aver paura," le rispose.

Alcuni filamenti si mossero e le protuberanze più lunghe si srotolarono fin dietro le spalle del Maestro, attaccandosi poi al muro grezzo della cella, e la sollevarono.

"Questa l'ho già sentita," disse Celestine. "Quando un uomo dice che non c'è nulla da temere, mente. Anche tu, Sartori."

"Non mi avvicinerò, se questo ti farà stare più tranquilla," rispose Sartori.

Non era stato il rispetto dell'inquietudine della donna a indurlo alla condiscendenza, ma la vista dei nastri che la stavano sollevando. Ricordò che Quaisoir aveva generato simili appendici dopo aver avuto rapporti con le donne dei Bastioni di Banu. Era chiaro che l'altro sesso deteneva strumenti di cui lui non comprendeva appieno la portata; residui di arti che erano state bandite dai Domini Riconciliati da Hapexamendios. Forse avevano avuto una nuova, perniciosa fioritura nel Quinto da quando se ne era andato. Finché non avesse scoperto la portata della loro potenza, avrebbe agito con cautela.

"Vorrei porti una domanda, se posso," chiese Sartori.

"Sì?"

"Come fai a sapere chi sono?"

"Prima dimmi dove sei stato in tutti questi anni."

Oh, che tentazione di raccontarle la verità e descriverle tutte le sue imprese nella speranza di impressionarla! Si era però recato da lei facendosi passare per il suo doppio e, come con Judith, avrebbe dovuto scegliere con molta attenzione il momento adatto per togliersi la maschera.

"Sono stato in giro," rispose. Era vero.

"Dove?"

"Nel Secondo Dominio e qualche volta nel Terzo."

"Sei mai stato a Yzordderrex?"

"Qualche volta."

"E nel deserto fuori città?"

"Anche lì. Perché me lo chiedi?"

"Ci sono stata una volta. Prima che tu nascessi."

"Sono più vecchio di quanto possa apparire," le confidò. "Lo so che non sembra..."

"So quanto hai vissuto, Sartori," disse Celestine. "Fino all'ultimo giorno."

La sua sicurezza accresceva il disagio del deposto Autarca, già alimentato dalla vista dei filamenti. Quella donna sapeva leggergli nel pensiero? Se era così, se sapeva già chi era e tutto ciò che aveva fatto, perché non lo temeva?

Non c'era motivo di fingere indifferenza. Con estrema decisione, ma sempre con gentilezza, le domandò come potesse sapere, elaborando contemporaneamente una serie di scuse nel caso in cui la donna fosse risultata una delle conquiste casuali del Maestro e lo avesse accusato di averla dimenticata. Ma l'accusa, quando arrivò, fu di tutt'altro tipo.

"Hai fatto del male nella tua vita, non è vero?" disse Celestine.

"Non più di altri," protestò timidamente Sartori. "Sono stato tentato da alcuni eccessi, è vero. Ma chi non lo è?"

"Solo alcuni eccessi?" riprese Celestine. "Penso che tu abbia fatto molto più di questo. C'è il male in te, Sartori. Ne sento l'odore nel tuo sudore, così come ho sentito l'odore del coito della donna."

La sua allusione a Judith (chi altri avrebbe potuto essere quella donna?) gli fece tornare alla mente la profezia che aveva svelato a Jude due notti prima. Avrebbero trovato il buio l'uno nell'altra, aveva asserito; e si trattava di una condizione assolutamente umana. Quell'argomento si era rivelato efficace, allora. Perché non lo era anche adesso?

"È solo l'umanità quella che senti in me," disse a Celestine.

Non la convinse.

"Oh, no," gli rispose lei. "Sono io l'umanità che c'è in te."

Il Maestro fu sul punto di ridere per quell'assurdità, ma lo sguardo di Celestine lo bloccò.

"Quale parte di me saresti?" le chiese.

"Non hai ancora capito?" domandò. "Bambino mio, io sono tua madre."

 

Gentle faceva strada mentre si dirigevano verso l'atrio freddo della Torre. Non si sentivano rumori provenire da nessuna parte dell'edificio, né in alto, né in basso.

"Dov'è Celestine?" domandò a Jude, mentre la donna lo conduceva alla porta che dava nella sala riunioni della Tabula Rasa. Gentle continuò: "È una faccenda tra fratello e fratello."

"Non ho paura," intervenne Monday.

"Ma io sì," replicò Gentle sorridendo. "E non vorrei che tu mi vedessi mentre mi piscio addosso. Rimani qui. Sarò presto di ritorno."

"Fa' in modo di essere svelto," aggiunse Clem. "O verremo giù a prenderti."

Confortato da questa promessa, Gentle scivolò nei meandri di ciò che rimaneva della casa di Roxborough. Sebbene entrare nella Torre non avesse evocato in lui alcun ricordo, adesso qualcosa cominciava ad affiorare. Non erano sensazioni materiali come quelle che aveva avuto in Gamut Street, dove ogni tavola sembrava aver serbato traccia delle anime che l'avevano calpestata. Si trattava di ricordi vaghi di quando, ubriaco, discuteva intorno al grande tavolo di quercia. Non permise che la nostalgia gli facesse perdere del tempo e attraversò la stanza come un uomo assediato dai suoi ammiratori, le braccia tese per difendersi dalle lusinghe, proseguendo verso la cantina. Judith gli aveva descritto il labirinto e il suo contenuto (tutto pelle e ossa, che fosse umano o meno), ma la vista di tanta saggezza sepolta nell'oscurità lo ammaliava. Non c'era da stupirsi, allora, che la magia nel Quinto fosse stata così anemica negli ultimi due secoli, se tutti gli alimenti che avrebbero potuto fortificarla erano rimasti celati lì. Ma non era venuto per la biblioteca, anche se essa lo attirava molto. Era venuto per Celestine, la quale, per indurlo ad arrivare, aveva menzionato il nome di Nisì Nirvana. Lui non sapeva perché. Sebbene ricordasse vagamente quel nome e sapesse che era legato a una storia, non riusciva a ricordare né la storia né da chi ne avesse sentito parlare per la prima volta. Forse Celestine conosceva la risposta.

C'era un fermento incredibile là dentro. Perfino la polvere sembrava non volersi calmare e, avanzando, Gentle ne distruggeva le costellazioni vorticose. Non sbagliò mai strada, ma il percorso per raggiungere la cella di Celestine era lungo e, prima di arrivarci, udì un pianto. Non sembrava il pianto di una donna, ma l'eco lo modificava, sicché non poteva esserne certo. Accelerò il passo, voltando angolo dopo angolo, sicuro che il suo altro io lo aveva preceduto, Dopo il primo pianto non ne udì altri, ma quando giunse a destinazione - sembrava una grotta, malamente scavata nel muro, l'antro di un oracolo - udì un suono diverso: quello di mattoni che si frantumavano l'uno sull'altro. La calce continuava a cadere e il pavimento a tremare. Gentle cominciò ad arrampicarsi sul cumulo di detriti, cosparso come un campo di battaglia di libri sfasciati. Salendo, colse un movimento subitaneo all'interno che lo portò rapidamente sulla soglia dell'apertura.

"Fratello?" chiamò, ancor prima di scorgere Sartori nell'oscurità. "Che cosa stai facendo?"

Vide il suo doppio che chiudeva la donna in un angolo della grotta. La donna era quasi nuda, ma tutt'altro che indifesa. I filamenti, simili a strascichi di una veste da sposa ma fatti della sua stessa carne, si protendevano dalle sue spalle e dalla sua schiena, risaltando per la loro forza più che per la delicatezza. Alcune di quelle protuberanze erano attaccate al muro sopra di lei, ma la maggior parte erano tese verso Sartori, avvolgendone la testa come un cappuccio soffocante. Sartori annaspava, muovendo le dita fra di esse. Un fluido scorreva dalla carne lacerata e pezzi di materia gli pendevano dai polsi. Non avrebbe impiegato molto, ormai, a liberarsi e, quando ci fosse riuscito, le avrebbe fatto del male.

Gentle non chiamò il fratello una seconda volta; a che pro, se l'uomo pareva completamente sordo? Attraversò invece la grotta il più rapidamente possibile e afferrò Sartori per le spalle, prendendogli le braccia per distoglierlo da quel gesto e far sì che si volgesse verso di lui. Nel frattempo, lo sguardo di Celestine andava da una figura all'altra, e lo spavento per ciò che vedeva, o forse la stanchezza, le fecero mollare completamente la presa. I filamenti feriti si rilassarono, caddero a ghirlanda intorno al collo di Sartori e misero in luce il volto dell'altro. La donna ritirò tutti i filamenti e se li raccolse in grembo.

Riacquistata la vista, Sartori sì voltò immediatamente per capire chi lo avesse fermato. Vedendo Gentle, interruppe ogni sforzo per liberarsi e si abbandonò, tranquillo, nelle braccia del Riconciliatore.

"Perché ti trovo sempre a fare del male, fratello?" gli chiese Gentle.

"Fratello?" rispose Sartori. "Da quando siamo diventati fratelli?"

"È ciò che siamo."

"Hai cercato di uccidermi a Yzordderrex, o te lo sei dimenticato? È cambiato qualcosa?"

"Sì," rispose Gentle. "Io sono cambiato."

"Ah sì?"

"Sono pronto ad accettare la nostra... parentela."

"Bella parola," rispose Sartori.

"Infatti, accetto la mia responsabilità per tutto ciò che sono stato, sono o sarò. Devo ringraziare il tuo Oviate per questo."

"È un piacere sentire le tue parole," replicò Sartori, "Specialmente mentre mi trovo in tale compagnia."

Gentle rivolse lo sguardo di nuovo a Celestine. Era ancora lì, in piedi, sebbene fosse evidente che erano i filamenti attaccati al soffitto a sostenerla, non le gambe. Aveva gli occhi socchiusi e tremori le percorrevano tutto il corpo. Gentle comprese che aveva bisogno di aiuto, ma non poteva fare nulla finché era gravato dal peso di Sartori, perciò si voltò e spinse il fratello verso l'apertura della grotta. Sartori si lasciò spostare come fosse una bambola e alzò le braccia solo all'ultimo momento per attutire la caduta.

"Aiutala, se vuoi," gridò a Gentle fissandolo negli occhi con espressione provata. "Non m'importa."

Si sollevò e per un istante Gentle pensò che volesse ribellarsi in qualche modo, sicché prese respiro, pronto a difendersi. Ma l'altro lo precedette, dicendo: "Sono a terra, fratello. Vuoi farmi del male, anche qui?" E, quasi a dimostrare quanto fosse caduto in basso, cominciò a strisciare sul pavimento, come un serpente che fugga dal fuoco.

"Sarà contenta di stare con te," concluse e spari nella camera adiacente, meno oscura della cella di Celestine.

Quando Gentle riportò lo sguardo su Celestine, la donna aveva già chiuso gli occhi e il suo corpo pendeva inerte dai forti filamenti, Le si avvicinò e lei, notando il movimento, spalancò le palpebre.

"No..." disse. "Non voglio... che... ti... avvicini a me."

La poteva biasimare? Un uomo con il suo stesso volto aveva già tentato di ucciderla, di violentarla, o entrambe le cose. Perché avrebbe dovuto fidarsi di lui? Né era il momento di spiegarle che era innocente; Celestine aveva bisogno di aiuto, non di scuse. Ma da chi? Jude aveva detto chiaramente di essere stata scacciata da quella donna proprio come lui. Forse Clem avrebbe potuto fare qualcosa.

"Manderò qualcuno ad aiutarti," le annunciò, e si avviò verso il passaggio.

L'Autarca era sparito; aveva smesso di strisciare e se l'era data a gambe. Ancora una volta Gentle tornò sui propri passi e salì le scale. A metà strada incontrò Jude, Clem e Monday, i cui timori svanirono vedendo l'amico.

"Pensavamo che ti avesse ucciso," esclamò Jude in ansia.

"Non mi ha nemmeno toccato, ma ha ferito Celestine e adesso lei non vuole che io mi avvicini. Clem, vuoi provare a vedere se riesci ad aiutarla? Ma sta' attento. Può sembrarti a pezzi, invece è ancora molto forte."

"Dov'è?"

"Ti accompagnerà Judith. Io voglio trovare Sartori."

"E salito sulla Torre," disse Monday.

"E non ci ha nemmeno degnati di uno sguardo," aggiunse Jude in tono quasi offeso. "E uscito ed è andato su per le scale. Che cosa gli hai fatto?"

"Nulla."

"Non ho mai visto un'espressione come quella sul suo viso. O sul tuo, mai."

"E com'era?"

"Tragica," rispose Clem.

"Forse potremo cantare vittoria prima di quanto io pensassi," continuò Gentle, sorpassandoli sulle scale.

"Aspetta," lo chiamò Judith. "Non possiamo occuparci di Celestine qui. Dobbiamo portarla da qualche altra parte dove sia al sicuro."

"Sono d'accordo."

"Allo studio, forse?"

"No," rispose Gentle. "So di una una casa a Clerkenwell, dove sarà al sicuro. Una volta Sartori mi ha cacciato da lì. Ma è mia e adesso andremo proprio là. Tutti quanti."

 

51

 

Il sole che Gentle vide nell'atrio gli fece venire in mente Taylor: la sua saggezza, trasmessa attraverso un ragazzo addormentato, aveva dato inizio a quel giorno. L'alba sembrava già lontana anni luce, tanto le ore erano state dense di viaggi e rivelazioni. Ormai Gentle sapeva che sarebbe stato così fino alla Riconciliazione. La Londra nella quale aveva vagato nei suoi primi anni, traboccante di possibilità (una volta Pie aveva detto che quella città celava più angeli che preti) era tornata a essere un luogo di presenze mistiche e Gentle ne godette. Il pensiero gli mise il fuoco ai piedi e lo spinse a salire le scale, due o tre gradini per volta. Stranamente, era davvero ansioso di rivedere la faccia di Sartori, di parlare con il suo doppio ed entrare nei suoi pensieri.

Jude lo aveva preparato a ciò che avrebbe trovato all'ultimo piano: anonimi corridoi che conducevano al tavolo della Tabula Rasa e al cadavere abbandonato. L'odore del corpo in putrefazione di Godolphin lo colpì subito dopo la soglia: un monito nauseante, se ce ne fosse stato bisogno, che la rivelazione aveva anche un volto truce, e che i giorni felici in cui egli era stato lodato come il più grande metafisico d'Europa s'erano conclusi in modo atroce. Non sarebbe successo di nuovo, giurò a se stesso. L'ultima volta, le cerimonie erano state trasformate in tragedia dal fratello che ora lo aspettava in fondo al corridoio, e se per eliminare la minaccia di un nuovo fallimento avesse dovuto commettere un fratricidio, l'avrebbe commesso. Uccidere sarebbe stato una liberazione, un sollievo; forse per entrambi.

Avanzando nel corridoio, l'odore insopportabile del corpo in disfacimento di Godolphin crebbe. Gentle trattenne il fiato per non sentirlo e giunse alla porta in assoluto silenzio. Ciononostante, mentre si avvicinava la porta si aprì e la sua stessa voce lo invitò a entrare.

"Non hai nulla da temere qui dentro, fratello, non da parte mia. E io non ho bisogno di studiarti per capire le tue buone intenzioni."

Gentle entrò. Le tende erano tirate per schermare il sole: di solito, però, anche la tela più spessa lascia trasparire un po' di luce: ma quella stanza era sigillata da una sostanza più impenetrabile delle tende e dei mattoni. Sartori sedeva al buio, la sua figura era visibile solo grazie alla porta socchiusa.

"Vuoi sederti?" gli chiese. "Riconosco che questo non è un posto salutare..."

Il corpo di Oscar Godolphin era sparito, ma nella stanza restavano macchie del suo sangue e viscere ammonticchiate.

"... a me piace, però, seguire l'etichetta. Dovremmo negoziare come esseri civili, eh?"

Gentle acconsentì, incamminandosi verso l'altra parte del tavolo per sedersi, disposto a mostrarsi fiducioso, almeno finché Sartori non avesse tentato qualche trucco. In quel caso, sarebbe stato rapido e implacabile.

"Dove è finito il corpo?" chiese Gentle.